Vittorio Sgarbi
Leggi i suoi articoliIl rapporto in Italia fra il mercante d’arte e lo Stato è come quello fra Diabolik e Ginko. Quando nel 1977 entrai in Soprintendenza a Venezia avevo un amico, bravo e furbo, che si chiamava Franco Semenzato. Era una persona capace, ma anche pronta a trovare soluzioni spicce: la legge che non era chiara glielo consentiva. Ma era perseguitato da una funzionaria, tuttora vivente, e dal grande soprintendente Francesco Valcanover: qualsiasi cosa Semenzato facesse era un crimine.
Fu in quel momento che apparve sulla scena un antiquario emerito, Giovanni Pratesi, che a Firenze coltivava l’antiquariato come una ricerca storica suggerendo agli storici dell’arte piste ancora sconosciute, come da lì in poi anche altri avrebbero fatto. È a Pratesi che dobbiamo la scoperta del Seicento senese, allora ignoto agli storici dell’arte, di cui raccolse 60 opere, da Bernardino Mei a Rutilio Manetti. Ero presidente della Commissione Cultura e le feci comprare tutte a meno di due miliardi di lire per legarle a Siena. E un accordo simile feci poi, insieme ad Antonio Paolucci, con gli eredi di un altro grande antiquario, Carlo De Carlo. Tra i mercanti d’arte, i collezionisti e lo Stato allora iniziò a esserci un’intesa. Sapevano di lavorare nello stesso campo e sapevano che i mercanti non sono i tombaroli dell’arte del ’600 o del ’700.
Già, i tombaroli. Così abili da produrre dei falsi che le forze dell’ordine sequestrano come veri. Riesce difficile capire perché i Carabinieri non si rivolgano agli storici dell’arte e agli archeologi per farsi dire prima quel che è giusto e quel che è sbagliato. Invece prima fanno il sequestro, poi una grande conferenza stampa nella quale appaiono come eroi e soltanto dopo si scopre che metà erano falsi. Parliamo per esempio del sequestro grottesco a Genova di un Rubens che non è Rubens. Intollerabile. Non sono il ministro e lo spiegherò al ministro e so che mi dirà: «Ma i Carabinieri sono buoni». Saranno anche buoni, ma quando sbagliano sbagliano.
Questo dell’export è un tema continuo di provocazioni. Quando l’Italia era un Paese povero lo Stato ha difeso il patrimonio italiano con la legge Bottai che sopravvive nel Codice dei Beni culturali. Questo avveniva quando il patrimonio italiano veniva depauperato anche dai Berenson, dai Longhi e da altri storici dell’arte, Zeri compreso, e pur essendo così ampio rischiava di venire diminuito. Oggi è il contrario. Grazie ai mercanti abbiamo in Italia una quantità straordinaria di collezionisti d’arte antica e moderna. Se sono d’arte moderna vengono premiati, quelli d’arte antica sono trattati come tombaroli. Trattare come un delinquente un collezionista d’arte antica dimostra la crassa ignoranza di chi non sa ancora che tutta l’arte è contemporanea. Ma questo è un altro tema.
Gran parte delle collezioni italiane è composta di capolavori d’arte antica acquistati a New York e a Londra, cioè di opere reimportate in Italia. Il rischio di esportazione quindi è minimo: chi ha importato perché dovrebbe esportare? Difatti generalmente ormai si esportano patacche, che tuttavia vorremmo notificare in massa. Siamo in un mondo di pazzi: di falsi periti che andrebbero arrestati e di magistrati ignoranti. Per sei anni sono stato inseguito dai Carabinieri per vedere le perizie che facevo, essendo lo Sgarbi che aveva fondato l’associazione per onorare Gino De Dominicis. Per sei anni mi indagano senza mai interrogarmi, nessuno mi chiama per sentire una mia versione e dopo sei anni scopro che sono indagato anch’io. Reagisco e attacco la magistrata per la quale, da quello che scrive, sarei un criminale che avrebbe autenticato 825 falsi; il Csm la mette sotto indagine e un’altra magistrata archivia tutto. In Italia viviamo in queste condizioni. Sotto accusa. Qualcosa non funziona.
Da Sotheby’s a New York un dipinto di Schifano, dotato di una scheda perfetta e proprietà dell’illustre studioso Masolino d’Amico, viene venduto a un milione di euro a un collezionista americano. Ed ecco che arriva un ragazzotto della Soprintendenza che lo notifica con una scheda copiata tale quale dal catalogo. Ma come si permette? Non si può più vendere un quadro del ’62, più giovane di me? Verrò notificato anch’io adesso? D’ora in poi, salvo che non vengano a trattare con me, il Ministero non dovrà notificare più nulla che abbia meno di 100 anni. Non vogliamo altri Burri, non vogliamo altri Fontana. Basta! E i mercanti non dovranno più venire vessati per qualsiasi cosa facciano da funzionari che devono affermare il potere dello Stato! Ma dove siamo?
In Italia non c’è un mercato nero, c’è un mercato italiano che è piccolo, pidocchioso rispetto al mercato internazionale. In Francia se un’opera interessa allo Stato, lo Stato la compra, e se non la compra amen. Paradossalmente anche Franceschini stava dalla parte dei mercanti d’arte che chiedono di essere liberi di essere dei mercanti alla pari di qualsiasi altro mercante. Se non c’è un mercato un’opera non esiste, e chi la fa esistere deve essere premiato, non punito. E perché un’opera deve essere libera solo se vale meno di 13.500 euro? Chi ha detto che se costa più di 13.500 euro diventa importante per il patrimonio nazionale? Importante è invece che ci sia qualcuno che capisca quando una cosa è degna davvero di interesse e quando no. E che non sia solo a decidere. Siamo pieni di capolavori nei depositi che nessuno vede e noi che cosa facciamo: notifichiamo?
Il Rubens non viene da nessun palazzo storico genovese e non è stato portato via a nessuno: era un’opera malamente attribuita finita in una villa dove uno l’ha venduta a un altro che l’ha comprata. Dobbiamo sequestrare quello che esce come Rubens e che viene portato in un luogo da dove non potremo più riaverlo. Ma se trovi una cosa di scuola fiamminga, la presenti alla Soprintendenza che ti autorizza ad esportare e a mandarla a studiare al Rubenianum e quelli ti rispondono che potrebbe essere Rubens e bottega, mentre un Rubens vero passa a New York per 35 milioni di euro, tu che questo fiammingo l’hai pagato 30mila euro e lo hai dichiarato e ti sei fatto la tua brava verifica all’estero e lo riporti in Italia e riesci a esporlo in una mostra a Palazzo Ducale, che cosa sei diventato in Italia? Un delinquente? Al punto che il tuo fiammingo te lo sequestrano e lo rinchiudono in un gabbiotto con delle finestrine? Che sceneggiata comica è questa per un quadro di m... che non è di Rubens. Chi è il magistrato incauto o ignorante che si è avventurato in qualcosa che non conosce?
A Milano il musicofilo Pietro Maranghi polemizza con me che non si deve portare Paolo Conte alla Scala. Ma perché? Gershwin non può andare alla Scala? La Scala è forse un tempio in cui si entra solo fino al 1901? Tutto ciò è una follia. Riccardo Muti mi telefona per dire che Giorgia Meloni deve sostenere la cultura e la Rai, industria culturale dello Stato, spende milioni per invitare a Sanremo Fedez e Ferragni. Come affidare un festival a Wanna Marchi. Ai tempi in cui c’era la Dc almeno questo non capitava. Però Paolo Conte non dovrebbe andare alla Scala. Ma che Paese è questo? Dobbiamo rimettere ordine in qualcosa che sembra molto disordinato, lasciata al capriccio di soprintendenti frustrati che la mattina si alzano con la voglia di mettere un vincolo senza nessuna ragione al mondo.
Io sono sottosegretario e dovrei agire con l’amico Stefano Candiani (parlamentare collezionista che ha fatto un intervento applaudito al convegno Fima del 13-14 febbraio, Ndr), dovremmo fare una riforma legislativa che stabilisca qualcosa di elementare: per esempio, che se compro un’opera a Londra e la importo in Italia, quando la esporto lo potrò fare senza problemi. Perché dovrei rinnovare l’importazione temporanea ogni 5 anni? Che senso ha? Del Modigliani acquistato nel 1922 il proprietario ha sempre rinnovato la liberatoria fino a venderlo in Cina. Dispiace, ma è giusto che l’abbia venduto all’estero perché all’estero era stato comprato. Ma se avesse dimenticato di rinnovare la licenza, andava punito così gravemente? Sono leggi assurde, trabocchetti inventati solo per ostacolare le persone, sperando che si dimentichino di pagare i rinnovi.
Dei privati formidabili che si chiamano Rovati (uno dei fratelli ha comprato l’Isola Bisentina) hanno creato una collezione meravigliosa di arte etrusca, a Milano hanno fatto un museo e hanno speso un sacco di soldi per un allestimento bellissimo. Ma ora tutte le opere definitivamente esposte sono oggetto di indagine trattandosi di reperti archeologici. È possibile che noi italiani riceviamo un museo da un privato che spende un mare di soldi e lo apre al pubblico per far vedere le opere a tutti e tu Stato gliele sequestri perché le ha comprate da Sotheby’s e vuoi controllare la loro origine? Ma vai da Sotheby’s e nopunire chi le ha riportate in Italia, che le ha messe insieme e le espone senza farti spendere un centesimo. Non dirmi grazie, ma lasciami in pace.
I collezionisti sono l’anima dei musei, i musei sono fatti dai collezionisti, sono la testimonianza del loro lavoro di ricerca: i collezionisti non possono essere nemici. Sono le opere rubate che vanno ricercate. Invece tutto il sistema criminalizza l’attività dei mercanti che dovrebbero ribellarsi a funzionari che li vessano e ristabilire un rapporto equo, di corretta civiltà, di reciproco rispetto. Incominciamo dalle aste: le opere si vincolano prima, non dopo. Le opere fondamentali sono nelle chiese, spesso trascurate. Abbiamo cose magnifiche che vanno in rovina e noi che cosa facciamo? Notifichiamo.
Se a una fidanzata regalo un gioiello liberty, di Castellani e Giuliano, e perfino un orecchino bizantino, e salto sulla mia Lamborghini e la porto a Montecarlo, ecco che sto già facendo un reato perché gli orecchini sono un patrimonio artistico con lo stesso significato e soggetto alle stesse regole di quadri e sculture. Uno che ha un disegno di Tiepolo, lo infila in un libro, lo porta a Londra e lo vende: perché dovrebbe portarlo all’ufficio esportazione sapendo che glielo notifica o gli impone l’acquisto coatto? Susanna Agnelli ha in casa un dipinto di Bellini notificato da 40 anni: non lo può muovere dall’Italia, ma nessuno lo può vedere in casa Agnelli. Se l’avesse in casa ma a St. Moritz che cosa cambierebbe?
Bisogna istituire un vincolo di conoscenza che si contrapponga, che sostituisca il vincolo di polizia. La proprietà privata è sacra. Ogni opera dovrebbe avere un passaporto, una carta che attesta che quell’opera gli appartiene. Allo Stato rimane la prelazione, che non è poco: se ho un Bellini che interessa allo Stato e lo potrei vendere a Ginevra, che lo Stato se lo compri. Invece lo Stato te lo blocca, ma non lo compra, e tu non lo puoi vendere né a Ginevra né a New York. Che cosa fai? Lo tieni in casa davanti al letto e ti masturbi mentre lo guardi?
Ci vuole un vincolo europeo minimo che permetta di muoversi liberamente nel mercato. Devi essere libero di muoverti con le cose che sono tue. Ma questo vincolo di conoscenza non c’è. Perché non c’è? Perché tutto quello che avete, per lo Stato è ricettazione, è refurtiva, come se foste dei ladri. La ricerca deve essere premiata, non punita. Per il fatto che un’opera sia di un privato non la vincolo bloccandola come se fosse dello Stato anziché sua. Semmai lavoro affinché sia lo Stato a comprarla.
Per la mostra sul Rinascimento a Ferrara cercavo un dipinto di Lorenzo Costa: ho la foto, ma non so chi l’abbia perché lo tiene nascosto. Se ci fosse il vincolo di conoscenza, avrei saputo dov’è e chi ne è il proprietario, il quale probabilmente lo avrebbe prestato a una mostra di Stato perché il vantaggio sarebbe stato di entrambi. E se lo Stato fosse interessato, dovrebbe comprarlo.
In Italia lo Stato è nemico del privato, è nemico del cittadino: la Polizia si identifica in Ginko e noi siamo tutti dei Diabolik da incastrare. Uno Stato in cui si distrugge il paesaggio con pannelli solari e pale eoliche, in cui si pratica una scandalosa speculazione edilizia da decenni, che cosa fa questo Stato? Vincola uno Schifano del ’62. Burri e Fontana sono famosi perché sono andati all’estero; se gli artisti italiani contemporanei vanno all’estero diventano famosi. Io servitore dello Stato mi trovo in una condizione molto complessa: per prima cosa devo salvare il paesaggio, cioè salvare l’Italia, e devo impedire la distruzione di molti edifici storici trascurati che invece vengono abbattuti. Sono questi i veri crimini. La mia posizione è molto complessa perché conosco la potenzialità criminale dello Stato che si comporta con arroganza e prepotenza intollerabili.
Il vincolo non dovrebbe essere mai una punizione, ma un motivo di ricerca e studio. Il limite di esportazione delle opere d’arte è stato portato da 50 a 70 anni, ma a 70 anni le opere sono ancora contemporanee. Non si capisce perché un’opera del 1952 che ha la mia età debba essere vincolata. Magari è una schifezza. È un meccanismo abominevole.
Dovrò proporre una legge che riformi questi punti essenziali e mandare circolari che limitino le prepotenze dei funzionari sulla base dei loro capricci. Vediamo cose indicibili: vincolare stampe e quadri che sono falsi. I burocrati di Stato possono fare qualsiasi cosa perché non c’è nessuna regola che un soprintendente possa imporre ai suoi funzionari per impedire comportamenti stupidi, miopi e inutili. In casi come quello di Schifano, la notifica andava respinta. In compenso nessuno aveva vincolato un gesso di san Sebastiano di Felice Casorati che viene dal teatrino di Riccardo Gualino e che ho scoperto alla Biennale di Firenze da Sperone. Quello sì meritava di essere notificato, ma devi avere un contesto in cui collocare una tale opera: così l’ho comprato per il Mart di Rovereto.
Un mio nemico, Tomaso Montanari, aveva sollevato un polverone per un Burri del ’67 che apparteneva a Giulia Maria Crespi, già proprietaria del «Corriere della Sera» e fondatrice del Fai, che aveva una splendida collezione in corso Venezia a Milano con due grandi Canaletto, Defendente Ferrari, Savoldo, Sano di Pietro e altri pittori eccelsi, mai vincolata da chi spesso era ospite a pranzo in quella casa. Montanari aveva montato una bagarre perché Franceschini e le Soprintendenze non avevano impedito di vendere all’estero un dipinto di Burri di quella collezione, peraltro rimasto invenduto.
Ma come è possibile che in Italia si criminalizzi una gran donna con immense benemerenze la cui casa è piena di capolavori e si voglia vincolare un suo Burri? Ma perché? Per farsi pubblicità, per castigarla di essere ricca? Allora mi sono incazzato e per evitare che qualcuno dicesse che recito due parti nella commedia, ho fatto vincolare 500 mie opere come collezione, un Corpus Sgarbi con un capolavoro scoperto da me, un Niccolò dell’Arca che nessuno aveva mai pensato di notificare e che mi sono notificato da solo. Il mio occhio aveva visto quello che nessuno aveva visto. Il mio occhio andava quindi premiato e mi sono autonotificato. Etica privata, non cattura coercitiva da parte di uno Stato rapinatore.
In Italia abbiamo avuto grandi antiquari colti come Contini Bonacossi o Stefano Bardini, glorie che hanno fatto molto per la nostra Storia dell’arte, le cui opere potevamo perdere e oggi fanno parte di quello che vantiamo come nostro patrimonio di conoscenza. Ma da allora tutto è cambiato, il rischio per il nostro patrimonio non c’è. C’è un’Italia diversa, piena di meraviglie che vanno vincolate quando sono le collezioni di palazzi con tutte le loro opere bene ordinate nelle loro stanze. Lo si fa per tutelare l’esistente, non per tutelare qualsiasi cosa che esiste solo perché un mercante l’ha scoperta.
I mercanti d’arte devono rivendicare la libertà del frutto della loro intelligenza e fantasia e la libertà di venderlo, salvo concedere allo Stato di esercitare la sua prelazione. I mercanti difendano la loro dignità: quello che ostacola la libertà di mercato è fascismo.
Trascrizione dal discorso conclusivo del convegno Fima a Modenantiquaria, 14 febbraio 2023
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