Gloria Gatti
Leggi i suoi articoliNicolai Lilin, nella sua Educazione Siberiana dove ha raccontato la complessa simbologia dei tatuaggi delittuosi, s’interrogava sul valore artistico che essi potessero avere. «Mi interessavano i soggetti non solo per motivi legati alla tradizione criminale, ma anche per il loro valore artistico. Già nella fase di studio dei disegni, ho cominciato a chiedermi perché ogni tatuaggio non poteva essere inteso esclusivamente come un’opera d’arte, piccola o grande che fosse. Per la sua filosofia, il tatuaggio criminale era la forma d’arte più pura che esisteva al mondo».
L’affascinante e millenaria tradizione del «dipingersi la pelle per sempre» torna ciclicamente, e non senza polemiche, a far parlare di sé, per le più disparate motivazioni. Ci si è chiesti spesso se i tatuaggi possano essere considerati come vere e proprie opere d’arte e in che modalità essi possano essere protetti.
A tal proposito è interessante il recente caso che ha visto coinvolta la nota tatuatrice americana Kat Von D, citata in giudizio per aver riprodotto sulla spalla di un amico l’iconico ritratto fotografico del jazzista Miles Davis con un dito alla bocca, scattato nel 1989 da Jeff Sedlik.
La vicenda inizia nel marzo 2017, quando Katherine Von Drachenberg, vero nome della tatuatrice, ha pubblicato sul suo profilo Instagram da oltre 8 milioni di followers il post di un tatuaggio da lei realizzato e «basato» sulla fotografia scattata da Sedlik. Il fotografo, rivendicando che si trattasse di una violazione del suo copyright in quanto non aveva mai concesso alcuna licenza per un’opera derivata, e dunque non aveva mai ricevuto alcun compenso per lo sfruttamento dell’immagine, ha deciso di rivolgersi alla Corte Distrettuale della California per chiedere i danni.
Da parte sua, la tatuatrice, oltre a sottolineare l’assenza di profitto commerciale dal tatuaggio in quanto eseguito gratuitamente, ha sostenuto si trattasse di un’opera «trasformativa», in quanto creata a mano e con sostanziali divergenze dall’immagine originale, quali la luce e le ombre sul viso di Davis, l'attaccatura dei capelli sulla testa e lo sfondo delle due immagini e lecita per il «fair use».
Un’ulteriore interessante sfumatura da cogliere riguarda l’eccezione proposta dagli avvocati degli imputati che hanno chiesto alla Corte di considerare un fattore di «fair use» non statutario, ovvero «i diritti fondamentali di un individuo all’integrità corporea e all'espressione personale».
Gli imputati hanno sostenuto che «ritenere i tatuatori civilmente responsabili per la violazione del diritto d'autore esporrà necessariamente i clienti di questi artisti alla stessa responsabilità civile ogni volta che decideranno di farsi tatuare sulla base di materiale protetto dal diritto d’autore, di mostrare i loro corpi tatuati in pubblico o di condividere post sui social media dei loro tatuaggi. Questa non è la legge e non può essere la legge».
I tatuaggi sono infatti un tratto distintivo di una persona e questo è stato confermato più volte anche dalla giurisprudenza: si pensi al caso «Solid Oak Sketches v. 2K Sports», nel quale il giudice federale di New York, con una recente decisione del 2020, ha ritenuto che il produttore del videogioco NBA 2K avesse una sorta di licenza implicita per l’utilizzo delle immagini dei tatuaggi delle star del basket in quanto lo scopo era quello di riflettere l’espressione dell’identità dei giocatori e quindi di rappresentarli nel modo più accurato possibile.
Il giudice della Corte Distrettuale della California tuttavia si è per ora limitato ad affermare che «il tatuaggio non crea un significato intrinsecamente diverso per il solo fatto di trovarsi sul corpo umano», lasciando la decisione sul «fair use» o meno del tattoo a una giuria.
Le diatribe legali riguardanti i tattoo sembrano dunque essere all’ordine del giorno e in esse è ben facile distinguere due differenti prospettive: quella dei diritti dei tatuatori in quanto artisti e autori dei disegni e quella dei diritti dei tatuati, in quanto espressione della propria personalità ed estetica.
Si pensi, infatti, al famoso tatuaggio maori sul viso di Mike Tyson, riportato illecitamente sul volto dell’attore Ed Helm nel film «The Hangover II». Il tatuatore Victor Whitmill, detentore del copyright sul disegno, ha subito promosso una causa contro la Warner Bros Entertainment, che si è però conclusa con un accordo privato.
O ancora il caso del tatuaggio di una testa d’aquila con sopra una piuma rappresentato sul braccio di Johnny Halliday, i cui diritti, così come deciso dalla Corte d’Appello di Parigi nel 1998, spettano al suo tatuatore Jean-Philippe Daures aka Santiag che aveva precedentemente registrato il disegno come marchio all’Inpi (Institut National de la Propriété Intellectuelle).
Di recente, invece, pare che la nota rapper Cardi B sia citata per aver utilizzato l’immagine del modello Brophy e del suo riconoscibile tatuaggio di una tigre sulla schiena in modo «fuorviante, offensivo, umiliante e provocatoriamente sessuale» come copertina del disco che ha lanciato la sua carriera.
La vicenda «Sedlik v. Von Drachenberg» sembra tuttavia avere anche attinenze con il recente caso «Warhol v. Goldsmith», che è in attesa di essere riesaminato dalla Corte Suprema, sull’uso trasformativo delle fotografie.
Una prima sentenza di marzo 2021 aveva decretato che le opere d’arte di Andy Warhol basate su ritratto fotografico di Prince scattato nel 1981 dalla convenuta Lynn Goldsmith non si qualificassero come «trasformative» e quindi non potevano invocare il «fair use»; dovendosi invece esaminare come possono le immagini essere «ragionevolmente percepite» e determinando se l’uso del materiale di partenza da parte dell’opera secondaria sia al servizio di uno scopo artistico «fondamentalmente diverso e nuovo».
La prossima decisione, che potrebbe sicuramente influenzare la causa di Sedlik contro Von D, si aspetta per ottobre, sperando che possa definitivamente chiarire quand’è che un’opera d’arte risulti sufficientemente trasformata da evitare una violazione del copyright e dunque rientrare sotto la coperta del «fair use».
Il giudice del caso non ha però fatto alcun riferimento a questa imminente decisione, riferendosi invece a un’altra sentenza del 2017, «Rentmeester v. Nike», che ha stabilito che le due immagini in questione erano così «inequivocabilmente diverse» nei dettagli materiali che nessun osservatore ordinario delle opere avrebbe potuto constatare una violazione del copyright.
Bisognerà attendere quindi il prossimo autunno non solo per sapere come la giurisprudenza americana risponderà ai quesiti sulla possibile artisticità, che a chi scrive pare alquanto dubbia, del tatuaggio della Von D, ma anche per avere un ennesimo chiarimento sulla dottrina del «fair use».
Nell’attesa della sentenza a chi avesse voglia di darsi alla Pazza Gioia raccomandiamo di «comprarsi un quadernetto per scrivere le sue cosine».
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