A Bonifacio, in Corsica, una grande caserma dismessa di 5mila metri quadrati, chiusa da più di trent’anni, si erge maestosa in cima a una scogliera di fronte al Mediterraneo. È in questa cornice che ha luogo la Biennale d’arte contemporanea organizzata da De Renava, associazione fondata da Doumé Marcellis e Prisca Meslier, due giovani trentenni corsi. «Volevamo dare vita a un grande evento d’arte contemporanea in Corsica, e in particolare a Bonifacio, che possiede un patrimonio naturale, architettonico e culturale eccezionale, spiegano Marcellis e Meslier. Abbiamo pensato che alcuni edifici abbandonati sarebbero stati ideali per ospitare opere d’arte e creare un dialogo tra il contemporaneo e il nostro patrimonio».
Intitolata «Roma Amor», la seconda edizione della Biennale si propone di comprendere l’enigmatica questione del meccanismo della caduta, che appare sistematico per tutti gli imperi. Una cinquantina di opere di venti artisti racconta la storia dell’emancipazione, il suo pensiero e la sua ricerca della libertà, il triste ricordo dei paradisi perduti e la formazione di un ideale che si eleva mentre va verso la sua distruzione. Fedele al suo titolo palindromo, la mostra riflette questa lettura ambigua della storia, tessendo una dialettica tra vandalismo ed eroismo, reliquie ed edificazione, concetti che accompagnano l’inevitabile messa in discussione di ogni civiltà.
In risonanza con l’intera cultura mediterranea, il tema senza tempo si adatta perfettamente alla città, occupata nei secoli da diverse potenze fino a diventare la dimora temporanea di Napoleone Bonaparte. Il ritratto «Napoléon 1er en costume de sacre» (Napoleone I nei paramenti sacri; 1805), dipinto da Jacques-Louis David e in prestito dal Musée Fesch di Ajaccio, apre la prima sezione dedicata alla percezione di una caduta «dall’interno», dove la decadenza porta a uno stato di rovina propizio alla rinascita.
«The Feast of Trimalchio» (La cena di Trimalcione; 2010), monumentale video-affresco del collettivo russo AES+F, la cui narrazione si ispira al celebre Satyricon di Petronio, rivisitato in una sorprendente miscela di riferimenti storici e iconografia contemporanea, raffigura le principali questioni geopolitiche e razziali di oggi. Sullo stesso argomento, un bronzo di Kehinde Wiley (Los Angeles, 1977) raffigurante due giovani guerrieri neri caduti in una battaglia moderna, emblema di una generazione oppressa. Qui il sigillo del passato è vivo e visibile nell’ambiente architettonico grezzo, fatto di muri fatiscenti e carta da parati strappata. Le opere del fotografo egiziano Youssef Nabil (Il Cairo, 1972) riproducono invece i codici dell’immaginario orientalista, con reminiscenze di visioni babilonesi per la loro abbondanza di colori, ricchezza e piacere. In «Natacha fume le narguilé» (2000) e «Deux Djellabas» (2007), l’immagine fotografica, colorata a mano, assume un fascino morbido e antico che rende altresì omaggio all’epoca d’oro del cinema egiziano.
Realizzata in situ, l’installazione «Temps mort» di Alexandre Bavard (1987) è uno dei punti salienti della Biennale. Immersa in un’atmosfera nebbiosa e ovattata, al tempo stesso scintillante e crepuscolare, forma uno scavo disseminato di calchi di antichità e statue in gesso, in cui i visitatori sono invitati a muoversi su un sottofondo di canzoni polifoniche corse con l’autotune. In mezzo alle macerie, un discobolo ricoperto di graffiti simboleggia una rovina al suo apice, in cui il piacere della desolazione si lega al versante sublimato di un mondo da ricostruire.
Se i graffiti si ritrovano nell’opera della giovane artista brasiliana Eneri (San Paolo), che si dedica al «pichaçao» (una tipologia di graffiti inventata in Brasile, a San Paolo, in cui la sovversione prevale sull’estetica), parte integrante dell’evento sono anche le statuette archeologiche delicatamente ricomposte dall’artista libanese Ali Cherri (Beirut, 1976; Leone d’Argento alla Biennale Arte di Venezia del 2022). Risolutamente eclettica, la manifestazione riunisce grandi nomi, da Jean-Michel Basquiat all’artista iraniana Shirin Neshat, e giovani artisti della scena isolana emergente: Romain Carré (1997) espone trofei scultorei di animali e Valérie Giovanni presenta un’opera nel padiglione architettonico installato sull’Impluvium, che filma le ombre del passato industriale della Corsica.
La rassegna prosegue nel cuore della cittadella, facendo rivivere il genius loci e il carico di memorie di luoghi solitamente chiusi al pubblico. Gli «Studies into the Past» di Laurent Grasso (Mulhouse, 1972), dipinti a olio su tavola di piccolo formato la cui esecuzione s’ispira alla tempera dei pittori italiani e fiamminghi del XV e XVI secolo, prendono posto sotto le volte buie dell’ex locale notturno L’Agora. Abitate da un immaginario popolato da energie diffuse e segni intangibili, rievocano fenomeni celesti e cataclismi, e fungono da introduzione alla tragedia di Pompei, rappresentata nella cappella Saint-Barthélémy dal film «Soleil noir». Di fronte a questa troneggia la colossale campana di rame dell’artista curdo iracheno Hiwa K (1975), decorata con rilievi di divinità mesopotamiche e realizzata con armi da guerra dismesse.
Metamorfosi e trasfigurazione sono ricorrenti in questa esposizione, dove caduta e ascesa procedono da un percorso comune, uniti e separati come le due facce del nastro di Möbius. Questa ciclicità è ripresa nella videoinstallazione di Bill Viola, da poco scomparso, esposta nel recinto sotterraneo della Cisterna, sotto il sagrato della Chiesa di Santa Maria Maggiore. «Tristan’s Ascension» (2005) costituisce un vero e proprio rovesciamento: immerso nel cuore di una cascata dove l’acqua sale invece di scendere, un corpo galleggiante si solleva e rinasce, come una metafora poetica della condizione umana.