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Katharina Hüls-Valenti

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Katharina Hüls-Valenti

Ricerche di provenienza: a che punto è l’Italia?

Un convegno alla Bibliotheca Hertziana-Istituto Max Planck indaga l’utilizzo delle fonti archivistiche (dalle biblioteche specialistiche agli archivi storici e politici) per lo studio di opere sottratte in ambito coloniale o durante le persecuzioni nazifasciste. Con gravi lacune nel mondo accademico, nei musei e nelle case d’asta

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Arianna Antoniutti

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Giovedì 26 e venerdì 27, la Bibliotheca Hertziana-Istituto Max Planck per la Storia dell’arte ospiterà il convegno internazionale «Quo vadis Provenance Research? Primary Sources and Archival Collections in Post-Unitarian Italy», dedicato al tema della ricerca di provenienza in rapporto alle fonti archivistiche. Si parlerà di tradizionali fonti storico artistiche (biblioteche specialistiche, collezioni fotografiche, archivi istituzionali e privati), come pure di archivi storici e politici. Ma, mentre in contesti internazionali il campo d’indagine della ricerca di provenienza è ben messo a fuoco, quanto mai attuale e pressante, in Italia, come spiega Katharina Hüls-Valenti, co-organizzatrice del convegno, «la disciplina è ancora poca nota, e c’è ancora molto da fare per colmare tale ritardo». 

L’attenzione della ricerca di provenienza si concentra in particolare sulle opere d’arte e sugli oggetti confiscati o sottratti durante le persecuzioni nazifasciste, come pure sui beni provenienti da contesti coloniali. Il convegno è il secondo workshop del Gruppo di lavoro Provenance Research Italy, co-fondato da Hüls-Valenti nel 2022 come costola italiana dell’Associazione internazionale per le Ricerche di Provenienza (Arbeitskreis Provenienzforschung e.V.) Oggigiorno l’Arbeitskreis conta più di 400 ricercatrici e ricercatori membri da tutto il mondo con l’intento di promuovere la ricerca di beni culturali sottratti in maniera illegittima attraverso uno studio sistematico e interdisciplinare nei musei, nelle biblioteche, negli archivi, nel mercato dell’arte e in ambito accademico. A 26 anni dalla dichiarazione dei Principi della Conferenza di Washington sull’arte confiscata dai nazisti (1998), firmata da 43 Stati tra cui anche l’Italia, chiediamo a Katharina Hüls-Valenti un quadro aggiornato delle ricerche di provenienza in Italia.

Il Gruppo di lavoro Provenance Research Italy, il cui primo workshop si è tenuto lo scorso anno al Centro Tedesco di Studi Veneziani, è rapidamente diventato un centro nevralgico su questi temi. Sono numerosissime le richieste che ci arrivano da parte di ricercatori, anche internazionali, che desiderano indagare la storia di opere d’arte e altri beni culturali provenienti dall’Italia. Ma, di contro, il grado di attenzione per queste tematiche è, proprio in Italia, ancora molto basso. Quest’anno abbiamo tenuto il nostro primo seminario all’Università Ca’ Foscari a Venezia e, in apertura dei lavori, abbiamo chiesto quanti fra i presenti si fossero mai imbattuti, nel corso dei propri studi di storia dell’arte, nella parola «provenienza». Nessuno fra i presenti aveva idea del significato del termine. Questa grave lacuna si riscontra non solo nel mondo accademico, ma anche nei musei e nelle case d’asta. Mentre all’estero è ormai impensabile per un’istituzione museale esporre, o, nel caso di una casa d’aste, vendere un’opera senza compiere controlli molto minuziosi sulla sua biografia, in Italia, purtroppo, questo ancora non avviene. Nel 1998 l’Italia aveva aderito agli 11 Principi della Conferenza di Washington, dichiarando il proprio impegno nell’identificare, all’interno di collezioni pubbliche, eventuali opere sottratte in seguito alle persecuzioni del regime nazionalsocialista.

Lo scorso marzo l’Italia ha firmato le Best Practices for the Washington Conference Principles on Nazi-Confiscated Arts. Ma, nonostante questo, nei rapporti generali che vengono stilati sugli Stati aderenti ai Principi, l’Italia è considerata uno dei Paesi più riluttanti nella loro applicazione. Questo perché, di fatto, ci sono stati solo pochi casi di restituzioni e pochissimi sono i progetti di ricerca in corso. Non c’è una reale volontà politica di tradurre i Principi in atti concreti. Un punto molto significativo da sottolineare, nelle Best Practices, è che, mentre nei Principi di Washington si faceva riferimento ai soli nazisti, ora si parla anche di opere sottratte o trafugate dai fascisti. Inoltre, si è anche ampliato l’arco temporale relativo al forzato cambio di proprietà di un’opera (che si sia trattata di una vendita forzata, di un’espropriazione, o di un trafugamento): l’orizzonte cronologico è ora compreso fra il 1933 (non più il 1938) e il 1945. Ossia non più a partire dalla promulgazione delle leggi razziali del ’38, ma già subito dopo l’ascesa al potere di Adolf Hitler. Questo perché, negli ultimi anni, si è dimostrato sempre più significativo il problema dei «flight assets», i cosiddetti beni in fuga. Gi ebrei che, immediatamente dopo il ’33, lasciavano la Germania con i propri averi al seguito, spesso furono costretti ad alienarli durante il loro esilio. L’Italia, e anche questo è un aspetto ancora poco indagato, dopo il ’33 divenne per gli ebrei un Paese di transito. Ad esempio, nel porto di Trieste, fra il ’33 e il ’40, sono transitati 120mila ebrei per lo più tedeschi e austriaci che emigrarono per fuggire in Palestina, oppure negli Stati Uniti o in America del Sud. Si spiega da sé, quindi, che il tema dei «flight assets» è assai rilevante anche per l’Italia.

Rodolfo Siviero con un quadro di Pontormo

Quali sono, secondo lei, le motivazioni profonde alla base della mancanza di sensibilità per il tema in Italia?

Ritengo che per quanto concerne l’epoca fascista l’Italia abbia attraversato, in modo analogo al discorso sul colonialismo, un lungo periodo di silenzio e di rimozione, e l’odierna situazione politica non fa che riflettere la mancanza di una seria e pubblica revisione. Gli espropri di beni causati dalla persecuzione antiebraica e le numerosissime opere d’arte trafugate durante il nazifascismo sono un argomento ancora poco studiato in Italia. Un argomento certo molto scomodo, sia per la società italiana sia per i musei. Anche in Paesi come la Germania, l’Austria, la Francia e i Paesi Bassi, per molti decenni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, c’è stato un lungo momento di silenzio, ma in Germania, negli ultimi vent’anni, si sono fatti grandi passi nell’affrontare il passato. Anche i Paesi Bassi e la Francia, nonostante siano stati occupati dai nazisti, hanno iniziato a revisionare in maniera assai critica la propria storia, riconoscendo almeno in parte il coinvolgimento dei rispettivi concittadini e Governi. Se in Italia, al momento, esistono solo sporadici studi in merito, all’estero quasi ogni giorno si hanno notizie di restituzioni o di progetti di ricerca sul tema, progetti per i quali vengono stanziati cospicui finanziamenti. In Italia il silenzio è assordante, sui giornali non c’è traccia di questi argomenti. Penso a un raro esempio, quello dalla mostra «Arte liberata 1937-1947. Capolavori salvati dalla guerra», ospitata dal dicembre 2022 all’aprile 2023 presso le Scuderie del Quirinale. Sebbene sia da apprezzare, come primo passo, si è però pur sempre trattato di una mostra con una prospettiva unidimensionale, conforme al sentimento politico vigente in Italia, nel segno del mito del cattivo tedesco e del bravo italiano.

In quell’occasione espositiva si mise in luce il ruolo di Rodolfo Siviero, futuro ministro plenipotenziario incaricato delle restituzioni postbelliche. Nel vostro convegno un intervento, di Marco Cavietti e Maria Idria Gurgo di Castelmenardo, sarà dedicato alle carte dell’Ufficio diretto da Siviero.

Il fondo Siviero, conservato presso il Ministero della Cultura (MiC) e da anni non consultabile, sarà finalmente reso pubblico. Questo è realmente un grande passo, si schiuderà infatti tutto un mondo non solo a livello nazionale ma anche internazionale. Sarà però fondamentale, studiando e vagliando il fondo che in questi anni è stato digitalizzato e riordinato, non considerare la sola prospettiva di Siviero, ma porla in connessione con la documentazione tedesca e con quella degli alleati ora conservata in Germania, Austria e negli Stati Uniti. Nel corso delle due giornate del convegno parleremo della necessità di poter accedere ai documenti d’archivio, spesso ostacolata in Italia non dalla mancanza di volontà, quanto dalla carenza di fondi, specie per il personale archivistico. È importante rilevare come i relatori del workshop (storici, storici dell’arte, archeologi, esperti di scienze archivistiche) provengano non solo dal mondo accademico, ma anche da musei italiani, istituti di ricerca (come la Fondazione Zeri e Villa I Tatti) e anche dal Ministero della Cultura. Alessandra Barbuto e Micaela Procaccia, del MiC, che illustreranno il tema della «Ricerche sulla provenienza dei beni culturali sottratti in Italia agli ebrei tra il 1938 e il 1945», sono due esponenti del gruppo ministeriale creato nel 2020 per il recupero dei beni culturali sottratti alla comunità ebraica. Si era trattato di un gesto che aveva fatto ben sperare, ma il gruppo è attualmente privo di finanziamenti e i suoi componenti lavorano, da quattro anni, pro bono. Mi auguro che il convegno, e il loro intervento in particolare, sia un segnale per il Governo e per il Ministero della Cultura: è una ricerca assolutamente necessaria, che va finanziata e portata avanti.

Se questo è lo stato dell’arte sul tema delle restituzioni, sul versante del colonialismo l'Italia ora sembrerebbe essere meno riluttante a fare i conti con il proprio passato.

Sebbene in ritardo e con notevoli resistenze, è vero che l’Italia ha iniziato una revisione critica dei beni extraeuropei sul proprio territorio, penso ad esempio alla recente mostra «Africa. Le collezioni dimenticate» presso i Musei Reali di Torino, terminata nel mese di febbraio. Su questo argomento al momento si è anche creato il Gruppo di Lavoro sulla Provenienza e la Decolonizzazione di Icom Italia. È interessante constatare come, nonostante anche questo costituisca un passato scomodo per l’Italia, sembra si faccia meno fatica ad affrontarlo. Sicuramente i musei, a prescindere dalla direzione in cui si vorrà andare, non potranno non affrontare, in un futuro assai prossimo, il problema di come esporre artefatti di provenienza extraeuropea. A fianco di ciascuna opera dovrà sempre essere presente un’opportuna spiegazione e una biografia dell’oggetto. Lo stesso concetto va applicato ai beni culturali realizzati prima del 1945, i quali potrebbero essere stati soggetti, ad esempio, di espropriazione o trafugamento durante il nazifascismo. In questo senso dobbiamo pensare ai musei, ma anche alle scuole e alle università, per le prossime generazioni e combinare le riflessioni su come gestire e affrontare il passato coloniale e nazifascista da una prospettiva educativa e didattica nel contesto museale e accademico.

Il convegno è organizzato da Tatjana Bartsch, Alice Cazzola, Katharina Hüls-Valenti, Johannes Röll e Madeleine Schneider. È finanziato dalla fondazione Fritz Thyssen, dalla Bibliotheca Hertziana e dall’Arbeitskreis Provenienzforschung e.V.

 

Arianna Antoniutti, 24 settembre 2024 | © Riproduzione riservata

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