Matteo Mottin
Leggi i suoi articoliMarinella Senatore (Cava de’ Tirreni, Sa, 1977; vive e lavora a Roma), una delle artiste italiane più attive in Italia e all’estero, ha partecipato ad alcune tra le principali residenze d’artista a livello internazionale. In Italia è stata residente presso il Csav-Artists’ Research Laboratory della Fondazione Antonio Ratti di Como, Vir Viafarini-in-residence di Milano e l’American Academy di Roma, mentre all’estero, tra le altre, presso Künstlerhaus Bethanien di Berlino, International Studio & Curatorial Program (Iscp) di Brooklyn e Art Omi a Ghent, New York. Rappresentata dalla galleria Mazzoleni (Torino-Londra), di recente ha partecipato al progetto «Italia 70» della Fondazione Nicola Trussardi e ha presentato la sua seconda installazione permanente site specific per il Macca di Peccioli (Pi).
C’è una residenza in particolare che ha influito positivamente sulla sua ricerca?
Ogni residenza d’artista a cui ho partecipato ha apportato qualcosa di unico alla mia ricerca, ma se dovessi scegliere una in particolare, direi la residenza Iscp a Brooklyn, New York. È stata importante perché ho avuto l’opportunità di lavorare a stretto contatto con una comunità artistica internazionale, scambiando idee e collaborando su progetti che hanno ampliato la mia visione. Ho conosciuto tantissimi artisti e curatori con cui ancora oggi collaboro, e quella è stata la mia grande storia d’amore con New York. Prima di questa, però, c’è stata un’altra esperienza fondamentale: la residenza Art Omi nell’Upstate New York. Fu la mia prima volta in America e arrivava in un momento di dubbi e incertezze rispetto alla mia pratica. Durante quella residenza ho iniziato il mio «Jammin’ Drama Project», lavorando con i rapper di Harlem e i residenti di Hudson City. È stato un periodo di grande crescita personale e professionale, in cui ho avuto l’opportunità di esplorare nuove tecniche e di legare con le comunità locali, generando un processo di creazione condivisa. Ho compreso che quello che facevo si inscriveva in un flusso molto più grande che in Italia e in Europa non riuscivo a vedere e che prima di questi momenti davvero di svolta mi aveva fatto sentire sola. Gli stimoli raccolti in ciascuna residenza, all’estero e in Italia, mi hanno permesso di esplorare nuove tecniche e di approfondire tematiche fondamentali nel mio lavoro. Ho rivendicato con più coraggio la multidisciplinarità, sentendo con forza la volontà di esprimermi attraverso più linguaggi anche in momenti in cui era una tendenza identificare gli artisti non per le pratiche bensì per i media utilizzati. Inoltre, sono state significative nel percorso che mi ha portato a fondare la School of Narrative Dance, il mio più grande progetto partecipativo, che dal 2012 ha coinvolto quasi 8 milioni di persone in 24 Paesi. Queste esperienze mi hanno dato la possibilità di trattare ancora più a fondo nella mia pratica l’«empowerment» dell’individuo all’interno del contesto collettivo e nuove idee di comunità, di condivisione ed emancipazione. La possibilità di conoscere non solo artisti ma anche tanti attivisti e di collaborare con loro (Black Panthers, Young Lords e Black Lives Matter e diversi altri indipendenti) mi ha naturalmente portata sempre di più a voler coinvolgere le persone e incentrare la mia ricerca sulla giustizia sociale, l’eguaglianza e il diritto.
Le residenze hanno dunque avuto un ruolo rilevante nello sviluppo della sua carriera?
Assolutamente sì. Le residenze d’artista sono state centrali nel mio sviluppo professionale e personale. Provenendo da una famiglia senza alcun legame con il mondo dell’arte e con limitate risorse economiche, le residenze mi hanno offerto l’unica opportunità di viaggiare, vedere il mondo e conoscere altri artisti e pratiche. Queste esperienze sono state importanti occasioni per creare un network di artisti, curatori, critici e intellettuali con cui continuo a collaborare. Incontrare e lavorare con tanti artisti diversi è stato di grande ispirazione e ha favorito la nascita delle grandi amicizie della mia vita. Mi hanno anche permesso di vivere una vita nomade per quasi 21 anni, facilitando il mio inserimento nelle comunità locali e stimolando continuamente la mia curiosità e la mia ricerca.
Quali consigli darebbe a un o una giovane artista che affronta per la prima volta questa esperienza?
Il mio consiglio principale è di approcciare la residenza con apertura e curiosità. È importante essere pronti a immergersi nel nuovo contesto, a interagire con gli altri artisti e con i curatori, vivendo appieno l’esperienza e soprattutto il luogo. La prima cosa di cui tenere conto è senz’altro la location, sia dal punto di vista geopolitico che sociale. La forte motivazione a comprendere il contesto e le varie comunità e gruppi che lo abitano è sempre un elemento di rilievo nella propria application ed è molto apprezzato dalle giurie. Essere molto presenti nel qui e ora e calarsi totalmente nel tessuto sociale del luogo può realmente fare la differenza. Mi piace citare l’apprendimento orizzontale del «Maestro Ignorante» di Jacques Rancière, che trasmette come l’insegnamento e l’apprendimento possano avvenire su un piano di parità, senza gerarchie. Il metodo si basa inoltre sull’emancipazione dei singoli come risposta agli stimoli forniti dall’insegnante, anche a seguito della chiara ricognizione dei propri limiti.
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