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Renzo Mangili, la curiosità e il rigore

Fernando Mazzocca ricorda lo studioso, e amico, uno dei maggiori e originali conoscitori e storici della pittura veneta e lombarda tra Sette e Ottocento. Autore del catalogo dei dipinti del Piccio, lascia incompiuto il volume sui disegni 

Fernando Mazzocca

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Non nascondo di aver provato una forte emozione, anche se purtroppo la notizia non era inattesa, nell’apprendere poche ore fa della scomparsa di Renzo Mangili che, nato a Bergamo nel 1948, è stato per me un grande amico (pur se negli ultimi tempi ci siamo visti poco) e uno studioso di riferimento cui mi hanno legato negli anni interessi comuni e che ho avuto la fortuna di avere al mio fianco in alcune mostre per me importanti.

Era un vero piacere, anche per la sua generosa disponibilità e affabilità, avere occasione di incontrarlo nella sua bella casa a Bergamo Alta dove, immancabilmente, ti faceva entrare, dopo un pranzetto delizioso, in un suo laboratorio segreto. Vi si dilettava, con risultati curiosi, ma dando prova di una sorprendente abilità tecnica e manuale nella scultura, tra opere in metallo e piccoli incantevoli oggetti in vetro da lui stesso soffiato che lo legavano alla amata Venezia, insieme a Bergamo la città dove più ha lavorato. Ricordo che ha fatto anche qualche mostra di queste sue creazioni, di cui mi pareva ingenuamente fiero.

Il suo occhio competente e allenato, come la  predisposizione al rapporto materiale con l’opera d’arte si ritrovano nei suoi studi che ne hanno fatto uno dei maggiori e originali conoscitori e storici della pittura veneta e lombarda tra Sette e Ottocento. Le numerose mostre da lui curate e cui ha partecipato, la sua vasta e impeccabile bibliografia parlano da sole. Così il suo carattere concreto, schivo, la apprezzabile umiltà di fondo e una sana intransigenza, spesso nascoste da un atteggiamento simpaticamente sornione, lo hanno tenuto lontano dai riflettori, convinto che fossero i risultati conseguiti a parlare da soli, in un percorso di studi iniziato con la tesi di laurea su Filippo Comerio, una delle sue scoperte, discussa all’Università di Bologna nell’ anno accademico 1978-1979 con Anna Ottani Cavina, da cui deve aver mutuato la curiosità a esplorare originalmente territori insoliti, affrontare artisti da riscoprire e rivalutare come è stato appunto per Comerio, estroso disegnatore per ceramiche e decoratore, approdato a Bergamo dalla formazione presso l’Accademia Clementina di Bologna, la Roma del circolo di Füssli  e la Faenza officina del Neoclassicismo.

Ai contributi su Comerio si ricollegheranno quelli su un altro artista eccentrico, lo straordinario Vincenzo Bonomini, celebre, sin dalla sua consacrazione nella mostra fiorentina del 1922 sul Sei e Settecento, per i suoi «Macabri» nella  chiesa bergamasca di Santa Grata inter Vites  a Borgo Canale. Mangili ci restituì, al di là di questo estrosissimo e misterioso capolavoro, una produzione decorativa assai più vasta recuperata in un giro di dimore bergamasche, di cui poi, con ulteriori ricerche su altri decoratori, ci ha fatto conoscere tutta la bellezza.

Più che le aule universitarie, anche se ha avuto qualche incarico alla Cattolica di Milano dove si è specializzato e all’Università di Brescia, ha frequentato la prestigiosa Biblioteca di Bergamo intitolata ad Angelo Mai, indagandone i fondi e facendone conoscere i tesori, in particolare i codici miniati da lui pubblicati presso Scheiwiller.

L’analisi diretta delle opere, facendo continue scoperte, e la dimestichezza con le fonti documentarie e la bibliografia hanno caratterizzato i suoi studi sulla pittura veneta del Settecento, tra Tiepolo e Sebastiano Ricci, pubblicando molto su «Arte Veneta» e collaborando con la Fondazione Cini. Esemplare la mostra lì curata, insieme a Giuseppe Pavanello, sulle «Teste di fantasia del Settecento veneziano». Rimanendo in quel secolo si ritorna a Bergamo con i contributi sull’ancora poco noto pittore ticinese Giuseppe Antonio Orelli, reputato per i suoi affreschi nelle chiese della Città Alta.  

La predilezione di Mangili per esplorare territori ancora poco conosciuti si è rivolta poi alla pittura bergamasca dell’Ottocento, di cui si può considerare il massimo esperto, soprattutto per quanto riguarda quei protagonisti che hanno operato nella grande officina dell’Accademia Carrara. Nell’occasione di due mostre, nel 1991 e nel 2002, ha ricostruito il catalogo, tra dipinti e affreschi, di Giuseppe Diotti ed Enrico Scuri che si erano succeduti nella direzione di quella gloriosa istituzione. Il loro classicismo senza tempo, ma non privo di originali venature romantiche, viene riscoperto come l’alternativa rispetto alla scuola milanese di Hayez e dei suoi seguaci. Ma è stato alla riconsiderazione dell’opera del Piccio (Giovanni Carnovali, 1804-73) allievo «ribelle» del Diotti, che Mangili ha dedicato, nel corso di decenni, tutto il suo impegno. L’esito è il ponderoso catalogo uscito nel 2014 dove viene ricostruito, con l’impegno e la serietà che gli erano propri, un corpus pittorico di questo artista irregolare e straordinario, la cui opera era stata, lungo tutto il corso della sua singolare fortuna, inquinata da attribuzioni indebite.

Ma quel coraggioso rigore era finito inevitabilmente con lo scontarsi con le ragioni di un mercato per cui questo volume, che rimane per noi uno strumento fondamentale, è stato accolto con molte polemiche, spesso irrispettose, da cui l’autore rimase sovente amareggiato. Ma non aveva, come era nel suo carattere, deposto le armi, per cui stava lavorando da tempo al catalogo dei disegni del suo amato Piccio, impresa che la sua scomparsa gli ha impedito di concludere.

Fernando Mazzocca, 30 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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