Hadani Ditmars
Leggi i suoi articoliA Beirut è stata lanciata una nuova enciclopedia online che propone una visione completa dell’arte e della cultura visiva palestinese. La piattaforma Interactive Encyclopedia of the Palestine Question è stata lanciata in estate dall’Institute for Palestine Studies di Beirut e dal Palestinian Museum di Birzeit.
Il lancio è avvenuto in concomitanza con il 74mo anniversario della Nakba palestinese (la parola araba per «catastrofe» usata dai palestinesi per descrivere l’esodo di massa dalla regione dopo la fondazione di Israele nel 1948) e la 55ma commemorazione della guerra arabo-israeliana del 1967, nota come Guerra dei Sei giorni.
Coprendo i principali eventi dalla fine dell’era ottomana a oggi, il sito include capitoli esaustivi sull’arte, che vanno dai dipinti di icone del XVIII secolo fino al ricamo, alla fotografia e al multimedia. Camille Mansour, direttrice del progetto, afferma che l’obiettivo dell’enciclopedia è «presentare i palestinesi per quello che sono: attori propositivi, e non solo vittime, che costruiscono con successi e insuccessi le loro istituzioni politiche, sociali e culturali dentro e fuori la Palestina».
L’enciclopedia comprende più di 800mila voci, sia in inglese che in arabo. Le sezioni dedicate alla cultura forniscono una panoramica complessiva e dettagliata della storia dell’arte palestinese e del modo in cui questa storia si collega alle realtà sociali e politiche dello Stato palestinese. Il segmento sull’arte è suddiviso in quattro capitoli, ognuno dei quali documenta quattro periodi distinti della storia della cultura visiva palestinese.
Si inizia con «Beginners (1795-1955)», un capitolo che esplora come la pittura di icone si sia sviluppata come «una delle prime tradizioni pittoriche del Paese» e poi «interrotta quando la società palestinese fu sradicata nel 1948». Seguono «Pathfinders (1955-65)», un capitolo che illustra come «una nuova arte sia stata forgiata da pionieri, la maggior parte dei quali cresciuti come rifugiati», e «Explorers (1965-95)», che comprende l’arte, spesso pesantemente censurata, creata in esilio e sotto l’occupazione israeliana da artisti come Sliman Mansur e Taysir Barakat.
Si conclude con «Present Tense: New Directions (1995-2016)», che documenta il passaggio all’arte multimediale e concettuale internazionalizzata guidata da artiste come Mona Hatoum ed Emily Jacir. Una sezione chiave dell’enciclopedia è incentrata sul ricamo palestinese, inserito nella lista del Patrimonio culturale immateriale dell’Unesco lo scorso dicembre, che collega il patrimonio culturale della Palestina all’esperienza del suo popolo, in particolare dopo la Nakba.
Al centro, una nuova forma d’arte emersa nei campi profughi dagli anni Sessanta, primo passo verso la trasformazione del ricamo da un vernacolo legato alle tradizioni rurali legate ai villaggio e allo status sociale a un simbolo dell’identità nazionale palestinese, spiega la voce.
La manifestazione più politicizzata del «New Dress» (il vestito nuovo) è stato il «vestito dell’Intifada», realizzato e indossato durante la rivolta popolare della fine degli anni Ottanta e dell’inizio degli anni Novanta, durante la quale «le donne hanno sfidato il divieto israeliano di esporre pubblicamente la bandiera palestinese abbellendo i nuovi abiti con mappe della Palestina cucite a punto croce, l’acronimo “OLP”, la parola “Palestina” in inglese e in arabo e persino bandiere utilizzando filo nei quattro colori (rosso, verde, bianco e nero) della bandiera palestinese».
Altri capitoli si concentrano sulla presenza della fotografia palestinese contemporanea. «La Palestina fu uno dei primi luoghi extraeuropei in cui si diffuse la fotografia: arrivò nel 1839, lo stesso anno in cui l’artista francese Louis Daguerre ne annunciò l’invenzione», spiega l’Interactive Encyclopedia of the Palestine Question. Inoltre, una sezione dedicata alla cartellonistica documenta l’uso palestinese della grafica, a partire dal Mandato britannico.
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