«Se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o pietre di vari misti, se arai a inventionare qualche sito, potrai lì vedere similitudine de’ diversi paesi, ornati di montagnie, fiumi, sassi, albori, pianure, grandi valli e colli in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverse battaglie e atti pronti di figure, strane arie di volti e abiti e infinite cose, le quali tu potrai ridurre in integra e bona forma».
Il passo di Leonardo è celebre, ma sin dall’antichità era diffusa l’illusione di rinvenire nelle viscere della terra forme della vita di superficie: quella che la psicologia oggi definisce «pareidolia». Eruditi moderni come Jurgis Baltrušaitis e Roger Caillois hanno ripercorso questa tradizione: nei lapidari medievali è frequente la meraviglia per le forme bizzarre delle pietre (come nel caso della grotta della Natività, a Betlemme, dove viene scorta l’immagine di un vecchio barbuto riconosciuto come san Girolamo). Nel Mundus subterraneus (1664) Athanasius Kircher cataloga le pietre figurate secondo le forme e ne spiega la genesi con la volontà divina e angelica.
Il fascino di questo repertorio deriva infatti dalla ricorrente credenza che la natura sia scritta (o, in questo caso, disegnata): quello del «mondo come libro» è uno dei tòpoi di quell’atlante di antropologia storica che è Letteratura europea e Medioevo latino di Ernst Robert Curtius (appena ripubblicato da Quodlibet) e Hans Blumenberg, in La leggibilità del mondo, ne ha illustrato il significato: dal Fedone platonico ai «geroglifici» romantici, passando per Il Saggiatore di Galileo, presupposto di questa tradizione è che, se quella del mondo è una Scrittura, prima o poi se ne riconoscerà l’Autore: Deus absconditus nel cuore della terra che abitiamo.
Non risponde a un caso, allora, che durante un profondo turbamento storico e spirituale, tra i primi decenni del Cinquecento e la metà del Seicento, si diffuse in tutta Europa la moda, la follia, della pittura su pietra: gli artisti gareggiano coi disegni della natura integrandoli nelle loro figurazioni. Le Wunderkammer di sovrani curiosi come Rodolfo II a Praga, o Gustavo Adolfo a Stoccolma, si riempiono di manufatti provenienti dalla Toscana o da Roma; ma anche nella «centrale» di questo gusto si raduna, per volontà di Scipione Borghese, una collezione invidiabile.
Sicché la mostra curata da Francesca Cappelletti e Patrizia Cavazzini rappresenta un «ritorno a casa» tanto festoso quanto appagante per gli occhi dei visitatori (e dei lettori del bellissimo catalogo), sottoponendo questa tradizione a uno sguardo nuovo sulla specificità dei supporti e delle tecniche, quello definito «material turn» (Christopher Nygren racconta la fortuna della pietra scura ligure, la Lavagna, e quello della pietra sedimentale della Valdarno, la Paesina: così detta appunto per i paesaggi che, tagliandola, pare di vedervi iscritti).
A inventare (o piuttosto riscoprire) la pittura su pietra fu il veneziano Sebastiano del Piombo. All’indomani del Sacco di Roma del 1527 si diffonde l’usanza che, annota Vasari, pareva far sì che «le pitture diventassero eterne e che né il fuoco, né i tarli potessero lor nuocere». Ma seducono anche altre caratteristiche, di quei supporti. Laura Valterio riporta i versi del Marino che nella Galeria (1619) descrive una «pietà in paragone» (dipinta cioè sulla «pietra di paragone» impiegata per testare l’autenticità dell’oro) di Palma il Giovane: «mentre a te ne vegno, / sì come accusa il falso e ’l fin metallo / con l’innocenza tua scopre il mio fallo».
Il poeta allude alle proprietà riflettenti delle pietre nere: effetto perturbante nella «Resurrezione di Lazzaro» del veronese Alessandro Turchi, detto l’Orbetto, che non si può osservare senza vedersi appunto riflessi nell’immagine. Fa impazzire gli amatori del Seicento l’ambiguità tra sfondo e figura, tra natura e artificio, tra materia e invenzione: quelle cioè che Baltrušaitis definisce Aberrazioni.
Abbastanza misterioso resta il motivo per cui più o meno a metà del secolo la voga, all’improvviso com’era apparsa, si esaurisce. Secondo Baltrušaitis, la mentalità scientifica moderna separa l’interesse naturalistico dal gusto per la bizzarria artistica, che quella moda aveva coniugato; e non è un caso che la sua rinascita moderna si debba alla dialettica del razionalismo propria delle avanguardie (in particolare del Surrealismo).
A mo’ di epilogo vale l’episodio raccontato da Piers Baker-Bates ed Elena Calvillo. All’inizio della Guerra civile di Spagna, nel 1936, la Cappella di Francisco de los Cobos a Úbeda venne saccheggiata: i rivoltosi fecero a pezzi, fra gli altri, un san Giovannino su tela attribuito a Michelangelo ma quando provarono a squarciare una Pietà su ardesia del suo discepolo e rivale, appunto Sebastiano del Piombo (oggi conservata al Prado), le loro baionette riuscirono solo a scalfirla. Alla prova delle intemperie della storia, quella pittura «poco meno che eterna» aveva resistito con fierezza.
«Meraviglia senza tempo. Pittura su pietra a Roma tra Cinquecento e Seicento», a cura di Francesca Cappelletti e Patrizia Cavazzini, Roma, Galleria Borghese, 25 ottobre 2022-29 gennaio 2023; catalogo Officina Libraria 2022, pp. 302, ill. col., € 90