Sergio Buttiglieri
Leggi i suoi articoliPier Luigi Pizzi è nato a Milano nel 1930, ha studiato architettura ed è stato allievo teatrale di Giorgio Stehler, dal 1951 ha partecipato a oltre 300 spettacoli nei più importanti teatri e festival del mondo. Una lunghissima e brillante carriera ripercorsa nel volume Pier Luigi Pizzi inventore di teatro (Allemandi). Dal 12 luglio al 24 agosto dirigerà a Torre del Lago, frazione di Viareggio, in Toscana, la 70ma edizione del Festival Pucciniano, a cent’anni dalla scomparsa del maestro. Nel suo cartellone nuovi allestimenti di sei capolavori pucciniani: Le Willis- Edgar, Manon Lescaut, La Bohème, Tosca, Turandot.
Ci racconta il suo rapporto con Venezia?
Ho visto Venezia per la prima volta a 9 anni, ero con mio padre, che veniva qui per incontrare a Murano dei maestri vetrai. Era una sera d’inverno, navigavamo sul Canal Grande con un velo di nebbia appena rischiarato da rari lampioni: ebbi la netta sensazione di entrare in una scena di teatro, il fantasma di una città metafisica. Questa immagine, traumatizzante ma fascinosa, non mi avrebbe lasciato per anni. Molto tempo dopo, quando mi trovai di fronte al genio pittorico di Böcklin e di Turner, ritrovai le medesime sensazioni. Fin da questo primo incontro, Venezia ha rappresentato per me lo spazio effimero dell’immaginazione, che non ha tempo e non ha confini.
Quest’anno è stato nominato direttore artistico del Festival Pucciniano di Torre del Lago
Ho un po’ esitato prima di accettare l’incarico, e l’ho fatto a condizione che fosse solo per l’edizione 2024. È quella del centenario della morte di Puccini, ha un carattere molto particolare rispetto ai Festival precedenti, inoltre è la settantesima. Ho debuttao tardissimo a Torre del lago, Giorgio Battistelli, precedente direttore artistico, due anni fa mi chiese di fare li la «Tosca» e io accettai. Mi trovai molto bene, per cui sono tornato anche l’anno scorso con «Madama Butterfly», che ha avuto un successo molto speciale. A questa edizione ho voluto dare un carattere speciale, considerarla un progetto unico con un’unità stilistica, una sua linea, una sua idea. L’idea di base è di presentare in ordine cronologico le prime opere di Puccini. Cominciamo con «Le Villi» e con «Edgar» che si metteranno in scena assieme nella prima serata. Sono le due prime cose che lui fa per il teatro, due opere abbastanza particolari rispetto a quello che verrà dopo, è già presente quel sinfonismo che ha caratterizzato il suo approccio col teatro d’opera e che Verdi gli rimproverò: «si, va benissimo, però attenzione!»
Il Festival inizierà il 12 luglio con la sua regia?
Ho dato la linea guida in queste prime due opere. È interessante che de «Le Villi» c’è una seconda versione in due atti, non è frequentissimo trovarla in scena, però si fa abbastanza, io invece faccio proprio la prima in un atto unico, una specie di opera balletto, ispirata alla «Giselle» di Adam. «L’Edgar» invece si fa nella prima versione in quattro atti. Puccini l’ha poi ripensata e ridotta a tre atti. Ha sacrificato il quarto atto, che a mio parere è quello più interessante. Tenendo conto dei tagli che lui ha portato, recuperiamo gran parte del quarto atto. È una versione interessante, perché nel quarto atto ci sono già in embrione dei temi che svilupperà con la «Bohème» e con la «Tosca». Le altre opere in calendario sono «Manon Lescaut», «Bohème», «Tosca» e «Turandot», chiusura obbligatoria che ho deciso di rappresentare integralmente come l’ha scritta, senza le aggiunte di Alfano e Berio. Finisce con la morte di Liù, un finale non ridondante e di grandissima emozione.
Come avete selezionato cast e direttori?
Abbiamo scelto dei direttori che hanno una certa pratica di Puccini. Abbiamo fatto moltissime audizioni e alternato cantanti di carriera e moltissimi giovani avviati a carriere brillanti. Per esempio Lidia Fridman, Carolina López Moreno, Anna Pirozzi. Non posso mai rassegnarmi ad avere sulla scena una cantante che non risponda anche fisicamente alle esigenze del personaggio. E poi c’è la parte visiva, era obbligatorio che ci fossero uno stile e un’estetica comuni in tutte le opere, per cui c’è alla base un dispositivo scenico «fisso». In ogni opera c’è però l’apporto di un’idea, di un o più elementi peculiari. Le regie di cui mi occupo personalmente sono quattro: le due prime più la «Tosca» e «Turandot» in una nuova versione. Le altre due opere sono affidate a Massimo Gasparon: la «Bohème» e «Manon Lescaut». Ci siamo divisi il compito, sarebbe stato difficile mettere d’accordo 5 registi in breve tempo su una base comune. Da un punto di vista pratico la successione delle opere (montaggio e smontaggio) deve essere molto agile. È un teatro popolare, dei tanti festival è il più popolare di tutti.
La Lirica Patrimonio immateriale Unesco. È un’attrazione mondiale e popolare.
Bisogna che gli spettacoli fatti qui si rivolgano a questo tipo di pubblico, non a un pubblico elitario. Si ha anche un po’ il dovere di rappresentare le opere come sono, senza stravolgimenti e senza interpretazioni.
Ho visto a Parma al Teatro Regio la sua regia de «I Lombardi alla Prima Crociata» di Verdi. Ha utilizzato anche tanti video e immagini.
Sì, non per fare degli effetti speciali, ma per aiutare il pubblico ad avere un’immagine più diretta, chiara ed esplicita dell’opera. Per la prima volta a Torre del Lago quest’anno ci sarà anche un ledwall con immagini a supporto della drammaturgia.
Lei spazia poi nel teatro di prosa, per esempio ha messo recentemente in scena «Zoo di Vetro» di Tennessee Williams al Teatro Goldoni di Venezia, ma si occupa anche di allestimenti di musei e di mostre.
A Venezia ho lavorato a Palazzo Fortuny, Palazzo Mocenigo e Palazzo Ducale, per interventi avviati con Gabriella Belli (ex direttrice dei Musei Civici), poi rimasti incompleti. Per 10 anni mi sono occupato dell’allestimento della Fiera dell’Antiquariato a Firenze. Recentemente a Maastricht ho progettato lo stand di Röbbig, amico e importante gallerista di Monaco di Baviera, specialista in porcellane Meissen. Una settimana fa a Cracovia nel Castello Wawel mi sono occupato di una mostra di porcellane Meissen, con le cinque più importanti collezioni al mondo. Lavoro spesso con Kugel di Parigi, per me il più grande antiquario al Mondo. Per lui io ho realizzato una mostra nella loro galleria in Quai Anatole France: nel cortile ho costruito il padiglione dove è stata allestita l’esposizione «Anticomania» che ha fatto epoca. Nello stesso Palazzo, avevano inoltre un intero piano nel quale hanno deciso di fare una biblioteca da me progettata.
Lei è anche collezionista.
Il Seicento è il periodo che amo di più, il periodo più rappresentato nella mia quadreria. Sopra il divano su cui siamo seduti c’è uno Schifano che adoro, l’ho comprato nel 1967, quando l’ha fatto. Me lo sono sempre portato dappertutto.
Com’era il suo rapporto con Schifano?
Dopo che comprai questo quadro siamo diventati amici, ogni tanto mi telefonava e mi diceva: «hai sempre il mio quadro? E io gli rispondevo di sì. E allora lui: «me lo venderesti?», «No, non ci penso proprio!» gli rispondevo. Questo è accaduto varie volte quando lui aveva dei momenti in cui aveva bisogno di soldi e allora voleva recuperarlo per rivenderlo, sapeva che era il suo quadro migliore, il più amato.
Come si intitola l’opera?
«Io sono infantile» (la frase è scritto sul quadro). È su tutte le monografie di Schifano ed è stata esposta in tantissime mostre, l’ho concessa varie volteb in prestito a Roma Milano, Reggio Emilia, ha fatto tanti giri.
Lei vive nella dimora che era l’atelier di Tiziano.
Palazzo Corner dei Tacchi, fino a un secolo fa uno dei rami Corner, poi il ramo si è estinto. Era una parte un po’ staccata, considerata, un po’ come nelle scuole veneziane, uno dei luoghi di attività, di formazione e culturale. Io approfitto delle energie che persistono nei luoghi dove è passato qualche grande artista.
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