Da oltre tre decenni Peter Doig attinge a una ricca gamma di fonti che spaziano dalla storia dell’arte alla memoria personale, dalle immagini trovate alle associazioni casuali per realizzare le opere suggestive che lo hanno consacrato come uno dei pittori attualmente più significativi e influenti. Ma questa reputazione è stata conquistata a fatica. Per la maggior parte degli anni Novanta, le rappresentazioni pacatamente evocative di paesaggi innevati e panorami lungo i cigli delle strade dell’artista nato in Scozia nel 1959 e cresciuto in Canada sembravano in contrasto con il gusto prevalente del mondo dell’arte per teatrini attraenti e giochi concettuali. Ma alla fine del decennio, e in gran parte grazie all’influenza di Doig come insegnante al Royal College of Art di Londra, i giovani artisti sono tornati ad abbracciare il potere della pittura. È seguito il successo di mercato e nel 2007 Doig è diventato il pittore vivente di maggior valore in Europa quando il suo «White Canoe» è stato venduto per 11,3 milioni di dollari. La fama artistica non è mai interessata a Doig, che nel 2002 ha lasciato Londra con la famiglia per vivere a Trinidad, un ambiente che ha animato i suoi dipinti per oltre due decenni. Ora Doig è tornato a vivere nella capitale inglese e la sua mostra con opere nuove e recenti allestita nella Courtauld Gallery dal 10 febbraio al 29 maggio lo vede esporre accanto a molti dei suoi idoli impressionisti e postimpressionisti.
Sui suoi dipinti influiscono molti fattori, ma l’ambiente fisico che la circonda è particolarmente importante. In che modo la permanenza a Londra ha plasmato le opere che ha iniziato a realizzare a Trinidad?
Quando sei a Trinidad il luogo è molto, molto presente. Alcuni dipinti che ho iniziato là raffigurano scene di strada del centro città. Non sono molto frequentate, ma sono comunque scene di strada, con facciate di edifici e cose del genere. Per ricordare l’atmosfera e ottenere quel senso di immediatezza, potevo sempre andare a dare un’occhiata o a girovagare e sentirmi estremamente in sintonia con il luogo. Ora mi sento un po’ come se stessi tornando al modo in cui lavoravo quando mi sono fatto conoscere, quando realizzavo tutti quei dipinti incentrati sul Canada. Non direi che si tratta di nostalgia, ma sicuramente della mancanza di qualcosa e di un cambiamento improvviso. Trinidad sembra così lontana. Anche fare un’intervista come questa, prima della mostra, è piuttosto insolito, perché negli ultimi vent’anni prima di ogni rassegna ero nascosto a Trinidad e potevo semplicemente andare avanti. Ecco perché sono un po’ teso in questo momento, perché siamo qui, a poco meno di un mese dall’inaugurazione, e non sono ancora sicuro di come sarà gran parte del lavoro.
Lavora sempre fino all’ultimo momento?
È sempre stato così, anche quando ero al college. Mi piace il processo, il tempo trascorso in studio quando non ci sono scadenze. Mi limito a vagare, è la mia natura. La cosa più difficile per me è quando devo davvero finire il lavoro.
C’è una nuova grande opera nella mostra, una scena con un canale realizzata interamente a Londra. Immagino si riferisca al fatto che il Regent’s Canal passa accanto a casa sua.
È nato come un piccolo dipinto che ho fatto per uno dei miei figli, ma ora è grande, nel tipico formato da paesaggio e raffigura un canale, che è proprio qui fuori. Ma credo che abbia anche a che fare con l’osservazione della collezione della Courtauld Gallery. Ho pensato alla scena come a qualcosa che avrei potuto immaginare dipinta da un postimpressionista, e poi mi sono chiesto se potevo ancora realizzare un dipinto del genere, ossia che sembrasse contemporaneo ma anche legato a quel mondo pittorico.
Come si sente a esporre il suo lavoro accanto a tanti suoi idoli della storia dell’arte?
Una delle domande principali che mi sono posto è stata: «Qual è il legame del mio lavoro con una collezione come quella della Courtauld Gallery?» Ma in realtà, anche se non intendo equipararmi a quegli artisti o a quelle opere, la collezione della Courtauld è già presente nel mio lavoro, soprattutto le opere nella grande sala che si attraversa per raggiungere gli spazi espositivi. Per me questa collezione ha offerto un’emozione per la pittura di una certa epoca e spero che questo si rifletta in ciò che ho realizzato.
Ha un rapporto di lunga data con la collezione?
Ci andavo spesso quando frequentavo la Saint Martin’s [School of Art], quando [la Courtauld Gallery] si trovava proprio vicino alla Slade [a Woburn Square]. Ricordo che era un luogo magico in cui andare. Non c’era mai nessuno e si vedevano i Gauguin, i Cézanne, i Pissarro. Era un posto speciale e non molto conosciuto, anche se c’era probabilmente il quadro più famoso di Manet: «Un bar alle Folies-Bergère».
C’è qualche opera a cui è tornato in modo particolare?
Mi piace il dipinto con il treno che Pissarro ha realizzato in Inghilterra («Lordship Lane Station, Dulwich», 1871, Ndr). Ci stavo pensando quando ho iniziato a dipingere il nuovo quadro con il canale: è la sua ordinarietà che mi ha colpito, anche se il quadro di Pissarro è molto più vuoto di quello che sto realizzando. Poi c’è un dipinto con bagnanti che ho iniziato a Trinidad: ne ho già realizzati tre o quattro basati su questa fotografia di Robert Mitchum, e ce n’era un altro di cui non ero del tutto sicuro. Così l’ho riportato nel mio studio, l’ho rielaborato e ora è molto diverso da quelli dipinti a Trinidad. Oserei dire che è più legato a Cézanne. Il che era uno dei motivi per cui ho deciso di affrontare il tema delle bagnanti.
Alcuni dei dipinti di bagnanti di Cézanne sono molto particolari.
E spesso molto goffi, ma in modo interessante.
Questa goffaggine la attrae?
Sì, e anche la sua cattiveria. Era cattivo ad altissimi livelli e nel corso di tutta una vita di lavoro, per cui questo diventa parte della sua evoluzione. E per me questo è un aspetto molto eccitante della pittura: non si tratta solo di essere squisiti, ma anche di essere strani. Ma non voglio nemmeno essere troppo letterale. Al Courtauld non c’è un Bagnante, ma l’incredibile «I giocatori di carte».
Le figure sembrano essere sempre più presenti nei suoi dipinti.
Ho sempre cercato di resistere alla pittura di figure perché la trovo particolarmente problematica. Ma è anche questo l’aspetto interessante e il motivo per cui voglio dipingere figure. Nel nuovo dipinto con il canale ci sono due figure: l’uomo su una chiatta l’ho visto davvero, giovane e dall’aspetto interessante, quasi un po’ alla Bill Sikes, che manovra una chiatta uscendo da un tunnel, e poi c’è mio figlio di quattro anni, che è una grande presenza di ragazzo nella parte anteriore. Ho dipinto alcuni bambini nel corso degli anni: è la mia vita. Ma questo quadro è nato anche pensando al dipinto di Matisse con un ragazzo al pianoforte («La lezione di pianoforte», 1916, Ndr). E pensando a come si può dipingere un quadro che non diventi troppo sentimentale, o stravagante o illustrativo. Ho questa paura, perché credo che oggi ci sia tanta pittura molto illustrativa.
Lei ha detto di essere affascinato dal modo in cui altri artisti, soprattutto quelli figurativi, usano la pittura in modo astratto.
Cézanne ne è un esempio chiave. I suoi dipinti sono figurativi ma anche molto astratti.
Un’altra componente della mostra alla Courtauld Gallery è una serie di 18 acqueforti ispirate dalle poesie del poeta Derek Walcott, premio Nobel nel 1992. Nel 2016 avete collaborato al libro «Morning, Paramin», che contiene 50 poesie di Walcott in risposta a 50 suoi dipinti. Com’è nata questa collaborazione?
Conoscevo le figlie che vivono a Trinidad, e due mie figlie sono andate a scuola con le sue nipoti. Ma non avevo mai incontrato Derek. Ci siamo incontrati per la prima volta quando sono andato a prendere le mie figlie alla veglia funebre dopo il funerale della sua seconda moglie. Lì abbiamo iniziato a parlare di pittura, perché anche lui dipingeva, anche se la scrittura aveva preso il sopravvento. Il giorno dopo dovevo andare a New York per incontrare un editore che realizza libri d’artista in cui vengono accoppiati scrittori e artisti. Per me era già stato scelto un altro scrittore ma, appena arrivato, l’editore mi ha detto «Cambio di programma! È Derek Walcott!». Aveva già parlato con Derek e voleva fare il libro con lui.
Quindi ha conosciuto Walcott grazie al lavoro su «Morning, Paramin»?
Derek non aveva visto molti miei dipinti e un paio di settimane dopo ci siamo incontrati alla mia mostra a Montreal. Era su una sedia a rotelle e per circa mezz’ora ho accompagnato questo grande uomo, questo grande cervello pensante, questo incredibile personaggio. È stata l’unica volta in cui avrei voluto avere un registratore, perché tutti i suoi riferimenti erano davvero molto interessanti. Era anche molto divertente e irriverente, ma poi, se un’opera non gli piaceva, diceva semplicemente: «Il prossimo!». Non avevo idea che avrebbe scritto quello che poi ha scritto. È stato il suo ultimo libro.
E ora ha chiuso il cerchio realizzando queste acqueforti ispirate alle poesie di «Morning, Paramin», che Walcott scrisse originariamente in risposta ai suoi dipinti.
Sì, ma non sono totalmente collegate alle poesie; è più che altro un punto di partenza. Ed è ancora in corso. Spero che anche alcuni dipinti vengano fuori da questo progetto. Nel mio studio di Londra sto allestendo una sala per le stampe, una novità per me. Trovo che la realizzazione di incisioni mi riservi molte sorprese, in un certo senso è alchemica, e da esse possono nascere, e nascono, dei dipinti.