Procopio Procopius
Leggi i suoi articoli«Caro Procopio,
forte di una prenotazione fissata all’ora di apertura, insieme a mia moglie e ai nostri bambini, Giulia di 7 anni e Mattia di 5, osservo, in coda sotto i bastioni pontifici, il serpentone delle decine di migliaia di persone che ogni giorno visitano i Musei Vaticani. Perché sono qui anch’io? Perché credo sia fondamentale la visione diretta di opere che hanno fatto la storia dell’arte e che nessuna riproduzione, simulazione digitale o virtuale può offrirci nella loro spazialità, fisicità, potenza emotiva. All’ingresso, un altoparlante e numerosi cartelli ci avvisano che questa giornata è dedicata all’attivazione sperimentale di un “programma didattico differenziato” all’interno dei Musei. Inoltre, proseguono gli avvisi, le nuove norme sulla decenza e sul rispetto del luogo, impongono alcune misure aggiuntive di immediata applicazione: tra le novità, la proibizione di accedere alle sale con infradito, tips (unghie finte) e con capigliature tinte in colori innaturali.
Le guardie vaticane appostate ai tornelli (non le multicolori milizie alabardate, ma energumeni dotati di taser, manganelli gommati e manette) faticano a contenere le proteste dei ciabattanti, delle ungulate e di una squittente fauna di puffette e puffone, fatine e fatalone, volpacchiotte e iene maculate, gnomi e gnome di ogni età: quasi un quarto degli aspiranti visitatori viene costretto a tornare sui suoi passi. Mia moglie e io, acconciamente abbigliati benché entrambi tatuati (ma in zone coperte), ci accingiamo trionfanti all’ascesa verso le sacre stanze. Oh dimenticavo: avvertimenti sonori e scritti proibiscono di scattare fotografie all’interno di tutto il complesso museale. I trasgressori saranno puniti con sanzioni variabili, incluse pesantissime ammende, dai 50 ai 2mila euro a seconda dell’importanza e della popolarità dell’opera fotografata, cifra raddoppiata in caso di selfie. Pochi si lasciano scoraggiare da questa durissima proibizione. La maggior parte, forse eccitata dal fascino dello scatto rubato, entra comunque.
All’Atrio dei Quattro Cancelli veniamo informati che il “programma didattico differenziato” prevede, per i bambini sotto i dieci anni, un percorso dedicato, sotto la guida di personale del museo appositamente addestrato. Il dolore della separazione, i pianti che riecheggiavano sotto le sacre volte e ancor più il rassegnato e forse ignaro silenzio di altri minori mi contagiano, facendomi tornare alla mente Meryl Streep e i suoi due bambini nel film “La scelta di Sophie”. Ma tant’è. Con cortese fermezza Giulia e Mattia ci vengono sottratti per essere destinati ad attività pedagogiche. Mia moglie e io ci inoltriamo di buon passo lungo la Galleria dei Candelabri e degli Arazzi, ma veniamo quasi subito alle prese con il “percorso didattico differenziato”. Per proseguire la visita occorre infatti superare un test approntato, dicono i cartelli, per misurare la qualità e selezionare la quantità dei visitatori. Ciascuno di noi, bloccato da un tornello munito di touch screen, è sottoposto a una domanda mirata a valutare la sua idoneità alla prosecuzione dei percorso.
Toccando lo schermo, ecco la domanda, diversa, ovviamente, per ciascun visitatore. “In quale secolo vennero aperti al pubblico i Musei Vaticani?” è il quiz a me destinato, e affidandomi alla buona sorte azzecco la casella giusta. Mia moglie supera agevolmente un test in cui le si chiedeva se i Musei comprendessero una collezione egizia, una raccolta di opere Nft o una sezione di zoologia uzbeca. Moltissimi cadono invece su altre domande: se il Laocoonte fosse un generale cinese di sangue blu, un rettile preistorico o uno sfortunato sacerdote troiano; se un celebre Torso lì conservato fosse detto del Belvedere, Torso Nudo o Torso de noantri. Chi non supera la prova (con orrore scopriamo ben presto che dai nostri smartphone è sparita la connessione internet) viene bloccato dal personale e accompagnato all’uscita. Simili test, a crescente grado di difficoltà, intervallano più volte la nostra visita.
Un obeso turista australiano che ha fallito il test si ribella, scavalca la barriera con insospettata agilità e fugge in avanti. Con calma, una suora polacca del servizio d’ordine poggia un ginocchio a terra, estrae la 44 Valium d’ordinanza, la impugna a due mani e lo centra al gluteo destro una siringa caricata a narcotico. Il fuggitivo crolla privo di sensi al largo della costa ligure. Perdo mia moglie all’ingresso delle Stanze di Raffaello. È sfinita, esasperata e ormai sull’orlo del panico, poiché durante il percorso ha assistito alla cattura di centinaia di visitatori sorpresi mentre scattavano di nascosto fotografie o giravano video con lo smartphone. No, in questi casi non viene usato alcun tipo di violenza; ma la fermezza del personale di custodia, il compatimento che traspira dai sorrisi dei carnefici e il senso di ingiustizia derivante dalla privazione di uno degli scopi principali di una visita a un museo o a una mostra, l’hanno terrorizzata. Cade, direi, per eccesso di erudizione: tra i personaggi nella “Scuola di Atene”, tra le varie ipotesi che si sono formulate, quale di questi tre artisti è stato ritratto? Esclude Caravaggio anche se si chiamava Michelangelo; ricordando l’incarico di piombatore pontificio conferitogli, e forse per un lapsus causato da quel cognome, “Luciani”, che le ricorda l’infausta sorte di un papa di origine veneta, la sventurata barra “Sebastiano Luciani detto del Piombo”, tragicamente ignorando, per via del soprannome poco acconcio a un luogo sacro, il Sodoma.
La crudeltà delle pene aumenta, man mano che ci si addentra nei Musei. A lei viene comminato l’obbligo di limitare la visita alla sezione filatelica e numismatica. Ad altri va peggio. I respingimenti dovuti al mancato superamento dei quiz sul significato di “dipinto a olio o a tempera all’uovo su tavola”, che secondo decine di sprovveduti avrebbe indicato opere raffiguranti banchetti o pasti a varie ore del giorno (fosse anche l’“Ultima Cena”) vengono seguiti da una punizione consistente nella consumazione di un lunch (offerto dal museo) nell’annesso ristorante a base di pane nero, tofu e indivia scondita. Alla fine rimaniamo in due. Mi chiedo che cosa abbia mietuto più vittime, se la trasgressione al divieto di fotografare o il mancato superamento dei test.
Se lo chiede forse anche l’altro superstite, uno studente berlinese di ingegneria che di notte, di nascosto dai suoi coinquilini e all’insaputa dei suoi genitori, studia storia dell’arte. A me tocca in sorte la domanda più facile; insomma, so benissimo che cosa era dipinto sulla volta della Cappella Sistina prima che Michelangelo vi ponesse mano perché ho visto un sacco di volte Charlton Eston digrignare la poderosa mandibola yankee nel polpettone “Il tormento e l’estasi”, dove un insospettabile Tomas Milian, non ancora folgorato dall’incontro con Sergio Sollima e dunque non ancora “Cuchillo” o “il trucido”, interpretava Raffaello Sanzio. Il giovane Hans-Dieter, poveretto, al tris di domande su quale di tre pittori fra Cagnaccio di San Pietro, Bartolomeo Passerotti e Bartolomeo della Gatta avesse dipinto nella Cappella Sistina, forse tratto in inganno dalla non perfetta conoscenza del vocabolario zoologico italiano o caduto nel trabocchetto di un ammiccante pseudonimo, pone fine al suo percorso barrando la casella del primo.
Ed eccomi finalmente qui, solo, a un passo dall’ingresso della Cappella Sistina. Entro a occhi chiusi nel silenzio tanto agognato. E non c’è puzza di piedi, di iperidrosi ascellare o di aliti agliati o cariati. Non vengo avvolto a tradimento dalle spire sulfuree di una silente flatulenza. È bello inoltrarsi nello spazio senza il timore del pestone di un anfibio borchiato di una studentessa di Scarnafigi, dell’urto di portentose natiche contenute a stento da tessuti in chiara sofferenza, della testata di un bambino nelle parti meno nobili. Solo silenzio e pace e vuoto. Ora sono pronto a voltarmi e a riaprire gli occhi. So che la prima cosa che vedrò sarà il Giudizio Universale. Apro gli occhi. Ma di fronte a me non c’è il Cristo che salva e condanna, non ci sono i giusti in ascesa e i peccatori trascinati dai demoni verso la giusta pena. Al suo posto c’è un immenso pannello dipinto dallo street artist J.R., che raffigura la parete squarciata da un trompe l’oeil che mostra un immaginario “spaccato” dei palazzi pontifici. Urlo di orrore, di delusione, di rabbia. Non avevo letto, all’ingresso, l’avviso che il percorso didattico differenziato avrebbe incluso una “esperienza” mirata a scardinare il feticismo auratico scatenato dall’opera d’arte. Ora rivoglio mia moglie, i miei figli, urlo ancora e ancora prima che la scossa di un taser mi abbatta tra i vortici del pavimento cosmatesco.
E finalmente mi sveglio. È stato un incubo. Sono le sei del mattino. Sono a Roma, in uno dei tanti alberghi a tre stelle sull’Esquilino, con la mia famiglia. Me lo confermano subito le strida dei gabbiani, poi, a terra, il runner del letto matrimoniale che, seguendo i consigli di Bruno Barbieri in “4 hotel”, mia moglie ed io abbiamo immediatamente appallottolato in un angolo della stanza. Stamattina abbiamo in programma la visita al Colosseo, l’ho promesso a Jacopo. E dopo pranzo dovremo batterci con concorrenti di tutte le etnie per riuscire a farci i selfie davanti alla Fontana di Trevi. E domani, appunto, i Musei Vaticani e San Pietro. Giulia vuole assolutamente salire in cima alla cupola. Sono seduto sulla malferma tavoletta del wc del bagno in camera con il mio portatile e le scrivo, caro Procopio, perché vorrei solo tornare a casa, ma sono prigioniero della bellezza come festa comandata. E poi non voglio neanche deludere o spaventare mia moglie e i bambini con la sindrome di Stendhal al contrario che mi ha afferrato dopo l’incubo di stanotte. Che fare?»
Federico, patito di musei
Prima visitiamo il museo civico
«Caro lettore,
intanto spero abbia fatto una cosa: colazione. “Dovremmo lavorare soprattutto sull’educazione, convincere la gente che sì, è giusto andare in America a vedere il MoMA o a Parigi a vedere il Louvre, ma che prima di fare queste cose dovrebbero visitare il museo civico della loro città. (…) Ecco il tipo di educazione preventiva che io vorrei: che le persone cominciassero l’educazione all’arte dall’ombra del proprio campanile”. Sono le parole di un grande storico dell’arte recentemente scomparso, Antonio Paolucci. È stato anche direttore dei Musei Vaticani. Nell’incubo che mi ha raccontato, caro lettore, regna una sintomatica e forse catartica distopia. Paolucci, dal canto suo, sapeva benissimo che, in un Paese come il nostro, quella da lui suggerita sarebbe stata una soluzione puramente utopica. In attesa che qualcuno suggerisca una via di mezzo, le auguro una buona primavera (magari non quella degli Uffizi)».
Procopio Procopius
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