Procopio Procopius
Leggi i suoi articoli«Caro Procopio,
Appassionata da qualche tempo d’arte contemporanea, incontro alla preview di Frieze London il socio di un noto gallerista milanese. Scopro così, tra uno stand e l’altro, una persona diversa da quella con cui sino ad allora avevo scambiato qualche parola su un artista o su una mostra presentati dalla sua galleria o nello stand di una fiera. Più giovane di me di una decina d’anni (io mi sto incamminando più che dignitosamente verso l’età di una piacente signora che non ha dimenticato gli studi umanistici all’Università), accompagna me e le mie amiche in una visita appassionante, colta, arricchita dalla sensazione, per una volta, di poter osservare il mondo dell’arte da una posizione privilegiata. È simpatico, brillante, ironico, non ha nulla dell’arrogante o del contorto atteggiamento degli addetti ai lavori.
Nasce, nel giro di pochi mesi, un’amicizia che, lo ammetto, rafforza dentro di me, una volta di più, la certezza che attraverso l’arte contemporanea la mia vita sia profondamente mutata, riscattandosi dalla routine di un lavoro nel quale non mi riconosco e un matrimonio con un uomo per molti versi affascinante, e assai apprezzato nella sua attività a capo di una grossa società immobiliare, ma fermatosi a una risicata laurea in scienze dell’economia e lontano anni luce dai miei interessi culturali. Jacopo, così chiamerò il giovane gallerista, è raffinato, colto, ironico. Prendiamo a vederci più spesso: qualche film, un paio di concerti, le cene irrorate da appassionanti conversazioni d’arte e letteratura in cui mai mi fa sentire il peso della sua maggiore e più fresca cultura; e ovviamente mostre, musei, opere che ho il privilegio di vedere in anteprima.
E poi… Poi forse interpreto in maniera sbagliata quelli che mi erano parsi incoraggianti segnali e, consigliata da un’amica, prendo il coraggio a due mani e faccio il primo passo. La sua reazione è cortese, amichevolmente affettuosa, ma con uno dei suoi disarmanti sorrisi mi rivela che da qualche anno ha un compagno al quale è molto legato anche se purtroppo vive per questioni professionali in un’altra città. Continuiamo a vederci, sia pure come semplici amici, ma mi rendo conto che anche in lui qualcosa è cambiato. È gentile ma un po’ più distaccato, quasi freddo. Al vernissage di una mostra di Anicka Yi all’HangarBicocca mi rendo conto che finge di non avermi notato. Quando finalmente non può fare a meno di salutarmi, pare quasi imbarazzato, mi presenta in fretta qualche suo conoscente del “giro” e con la scusa di un incontro di lavoro si allontana velocemente insieme, suppongo, ad alcuni clienti.
Quasi in lacrime mi avvio verso l’uscita e sulla via del ritorno la serata ha la sua degna conclusione, quando alla fermata della metro chi ti vedo? Mio marito, ma sì, proprio lui, nell’atteggiamento che un eufemismo definisce inequivocabile con la giovane assistente di galleria aspirante a una carriera di curatrice. Evito per decenza di palesarmi ma il mondo mi crolla addosso. Non tanto per mio marito, anche se mi chiedo che cosa accadrà quando la giovane talebana della curatela, dopo averle vanamente parlato di lettura distopica dell’ultima Documenta, scoprirà che il suo artista preferito è Jago e che sa chi sia Marina Abramovič solo per la parodia interpretata da Virginia Raffaele in tv, oppure (lei è ferocemente vegana) lo coglierà in fallo chiedendogli quale tipo di tempeh e di seitan preferisca.
Le lacrime che non riesco a trattenere sono di rabbia e di smarrimento; penso alla mia amica con la quale ho litigato perché sosteneva che Jacopo mi frequentava soltanto nella speranza di appiopparmi qualche fondo di magazzino. E arrivo a sospettare che il famoso compagno che vive all’estero non esista e che sia stato un pretesto per sganciarsi da quella che deve apparirgli come un’ingenua e patetica tardona il cui unico pregio sono i soldi del marito. Non mi rassegno all’idea che il mondo dell’arte contemporanea sia quello, cinico, autoreferenziale e vile descritto nel film “The Square”, che pure avevo pesantemente criticato per la sua banale adesione a logori luoghi comuni. Ma, lo confesso, ora fatico a ritrovare molto di ciò che trovavo gratificante e necessario nell’arte d’oggi».
Costanza, Borgomanero
La giovane talebana del contemporaneo che piace a suo marito
«Cara lettrice, i casi sono tre. Il primo: suo marito ha individuato nella giovane talebana la persona capace di soddisfare un represso e masochistico desiderio di esibita inferiorità facendosi infliggere umilianti o semplicemente intollerabili esperienze espositive o performative, per non parlare di un entourage di addetti ai lavori (tra i quali sguazza la sua nuova fiamma) non particolarmente gradevole e tollerante, data l’altissima percentuale di adepti fondamentalisti.
La seconda ipotesi, non così peregrina di questi tempi, è che abbia realmente deciso di convertirsi, passando attraverso i tre gradi previsti per la progressiva ascesi verso la perfezione: il pentimento per gli errori pregressi (consistente in cruenti atti espiatori, tra i quali l’iscrizione a un costosissimo master di storia dell’arte contemporanea in qualche prestigioso ateneo), la purificazione (attraverso settimanali sedute di videoterapia e regolare partecipazione a webinar su temi quali la discriminazione di genere, il postcolonialismo, la politica, e l’ecofemminismo tenuti da artisti e teorici quali Bonaventure Soh Bejeng Ndikung, Cecilia Vicuña, Apichatpong Weerasethakul, ruangrupa e Hito Steyerl) e il battesimo (tra le opzioni, la permanenza e/o la iterata percorrenza di un’installazione immersiva dello studio Toast VR per 48 ore senza interruzioni e senza dare di stomaco o di testa). È evidente che se suo marito è in grado di sottoporsi a queste pratiche potrebbe persino rinunciare ai rigatoni alla pajata, e alle grigliate di capocollo con i colleghi (cui lei accenna in una parte della lettera che per questioni di spazio abbiamo dovuto sintetizzare).
Ma proprio la seconda ipotesi potrebbe orientarci verso una terza possibilità, quella di un normalissimo flirt di breve durata, perché sono poche le persone capaci di sopportare anche soltanto un happening di Eat art di Rirkrit Tiravanija: non tanto per il menu, quanto per i commensali. Il tutto, beninteso, al netto del pur sempre valido detto secondo il quale l’amore è cieco. Il che spiegherebbe, tra l’altro, perché così tante persone sono letteralmente infatuate da oggetti, opere o azioni di impervia comprensibilità, mortificante noiosità e rara bruttezza. Quanto al suo temporaneo disamore, non si lasci scoraggiare: l’arte è millenaria e quella diciamo così più “agée” raramente tradisce le aspettative dei suoi spasimanti».
Procopio
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