Alessandra Mammì
Leggi i suoi articoli«Scienza e arte riguardano la continua riorganizzazione del nostro spazio concettuale. L’arte non è nell’oggetto artistico e ancor meno in qualche misterioso mondo spirituale: è nella complessità del nostro cervello, nella caleidoscopica rete delle relazioni analogiche con cui i nostri neuroni reagiscono all’oggetto».
Partiamo da qui: dalla pagina 58 dei Buchi bianchi di Carlo Rovelli (Adelphi). Un viatico per entrare in quest’ultima edizione della Biennale dell’Immagine in Movimento messa in scena al Centre d’Art Contemporain di Ginevra fino al 16 maggio. Si intitola «Cosmic Movie Camera» e nel manifesto riproduce le prime immagini di un buco nero catturate dal telescopio Event Horizon: una voragine circondata da un anello luminoso, un intreccio di luce e materia che ruota attorno all’abisso. La mostra è firmata dal direttore del Centre, Andrea Bellini e Nora N. Khan, curatrice di sofisticata formazione e ricerca, specializzata in critica e teoria delle visioni generate dal mondo digitale e in saggi che studiano gli algoritmi, l’intelligenza artificiale e la nuova percezione di spazio e tempo nell’arte.
È da loro che sono stati scelti gli artisti (Basel Abbas & Ruanne Abou-Rahme, Alfatih, American Artist, Danielle Brathwaite-Shirley, Sheila Chukwulozie, Formafantasma, Aziz Hazara, Interspecifics, Lawrence Lek, Shuang Li, Diego Marcon, Lauren Lee McCarthy, Sahej Rahal, Jenna Sutela e Emmanuel Van der Auwera) in grado di dar vita a quindici complessi progetti, interamente prodotti dal Centre, che prendono forma di film, videoinstallazione, animazione, videoscultura, videogioco immersivo, stanze di meditazione, design futuribile...
Non si tratta di obbedire agli stimoli della scienza ma di obbedire a ciò che segue la conoscenza: una scoperta scientifica da cui non si torna indietro come ieri fu l’immagine della Terra piccola e colorata, biglia sospesa nel vuoto dell’infinito, e oggi la visione di un buco nero la cui esistenza finora era solo affidata a formule ed equazioni.
Tornando alla citazione da Carlo Rovelli si può dunque dire che i neuroni dei quindici artisti chiamati a tanto compito hanno reagito al loro tempo. Ognuno a suo modo, ognuno con la sua storia, ognuno con la sua visione del passato e del futuro. Oppure entrambi, dal momento che sull’«orizzonte degli eventi» di un buco nero, affacciati a questo tutto/nulla dominato dalla forza gravitazionale, la scienza ci dice che il tempo e lo spazio si strappano e che passato e futuro perdono di senso.
Ed ecco che comincia il viaggio nei tre piani di questo edificio post industriale del Centre d’Art Contemporain, che festeggia così il 50mo anno di vita e di ricerca, fedele alla sua storia da quando fu fondato nel 1974 da Adelina von Fürstenberg, coraggiosa produttrice e curatrice, unica donna capace di creare un’istituzione tanto innovativa e radicale, la prima di arte contemporanea nella Svizzera romanda e per di più in una disciplina dove ai tempi dominava la figura del critico muscolare e maschio alfa.
Si celebra anche un nuovo inizio: l’annuncio della ristrutturazione degli spazi di cemento e ferro che si spera non sia troppo radicale e non uccida la dimensione vagamente distopica dall’incerto pavimento in vecchi tasselli di legno, che aiuta ad avvicinarsi alle opere con cautela e lentezza, molto lontani dalla rassicurazione di un White Cube. Atteggiamento utile in queste stanze, dove il viaggio è puntellato da videoinstallazioni complesse e totalizzanti che ospitano creature figlie di intelligenza artificiale.
Come nel caso di Basel Abbas & Ruanne Abou-Rahme, duo di artisti di origine palestinese, nati entrambi nel 1983, impegnati in progetti a lungo termine che abbracciano musica, video, elaborazioni digitali ed elettroniche. Sono qui con l’ultimo capitolo di un’elettrica avvolgente epopea dal titolo «May amnesia never kiss us on the mouth». È nostalgia e speranza di un territorio che vediamo ricostruito in schermi sovrapposti attraversati da antichi canti e fluttuanti versi di poemi. Un paese abitato da avatar dai volti improbabili, diversamente reali perché arrivano dalla fusione in digitale della somma di decine di volti di uomini e donne del loro popolo.
Siamo ai confini della realtà, nel punto in cui l’Intelligenza Artificiale è in grado di ricreare una realtà altra, credibile e attiva. Quella che in «Gospel», videoscultura del belga Emmanuel Van der Auwera s’insinua nel punto di contatto tra un’abbagliante lastra verticale di luce bianca e una orizzontale nera e specchiante di identica dimensione. Nella congiunzione tra luce e buio si rivelano visioni imprigionate in una sghemba dimensione. Scorrono, intrecciando storie che arrivano da un mondo totalmente rigenerato. Si narra di un’immensa miniera di «Terre rare», situata in una zona della Cina tenuta segreta ma che il computer è in grado di mostrare grazie all’artificio che trasforma informazioni in immagini. Si assiste a un colloquio poetico e amoroso tra l’artista e Caryn, creatura dell’Intelligenza Artificiale. Si documentano, grazie agli algoritmi di un programma digitale, le rovine in zone di guerra inaccessibili. E ci si chiede quanto la diretta esperienza umana possa ancora resistere di fronte alla forza d’alterazione di una realtà così ben ricreata artificialmente.
Una domanda che è il più forte filo rosso di questa mostra, dove i videogiochi si mescolano con la politica (Sahej Rahal). Dove cellule virtuali pulsano su steli di led, crescendo in combinazioni inedite per simulare la possibilità di un’evoluzione diversa da quella che ha portato alla nascita dell’uomo (Interspecifics). Dove per verificare il vuoto legislativo che ci circonda, si mette in scena un processo contro un’automobile assassina dotata di sua autonomia e intelligenza ma non perseguibile in quanto non umana (Lawrence Lek). Dove si resta chiusi in una stanza rossa a premere pulsanti rispondendo a una specie di Squid Game psicologicamente inquietante che ci dimostra di non avere ormai più scelta in quanto esseri umani (Danielle Brathwaite-Shirley).
Anche l’attivazione della memoria non obbedisce più alla grammatica dei sentimenti. I Formafantasma ricostruiscono habitat con le carcasse di vecchi monumentali computer anni Novanta, ma non c’è traccia di nostalgia o del passaggio del tempo sulle lamiere. Shuang Li dedica la videoinstallazione al ricordo d’infanzia su cui poggia il suo immaginario: la foto di un castello mai visto, estratto da una banca di immagini. Diego Marcon nel suo film «La gola» trasforma un epistolario tra un uomo e una donna in un’indagine sui meccanismi del cinema di genere novecentesco, dal melodramma all’horror, ma lo fa occupando l’intero schermo con inquietanti primi piani ripresi dal vero e rigenerati digitalmente in Cgi.
Sogno o son desto? Tutte e due le cose, è la risposta. «Gli artisti qui riuniti, scrivono i curatori, s’interessano da tempo ai limiti del conosciuto e del quantificabile e ai confini dei nostri regimi visuali inesorabilmente spettacolari. E in quanto poeti si sono appoggiati a ciò che ancora non è stato visto, attraverso l’impercettibile e attraverso ciò che resiste alla cattura».
Un avamposto di creatori diversi per ricerca e origini ma uniti dalla consapevolezza che sia la scienza sia l’arte hanno bisogno di andare oltre la realtà per arrivare alla verità. La prova è proprio nel lavoro di decine di scienziati visionari e negli oltre cent’anni di intuizioni, dubbi, formule, equazioni spesi per catturare l’immagine che battezza questa Biennale: la camera cosmica che ruota intorno all’abisso di un buco nero, dove presente, futuro e passato si fondono in una nuova esperienza.
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