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Giuseppe Penone al lavoro sul grande disegno murale «Pressione»

© Musée deGrenoble. Foto: Jean-Luc Lacroix

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Giuseppe Penone al lavoro sul grande disegno murale «Pressione»

© Musée deGrenoble. Foto: Jean-Luc Lacroix

Penone: «È la materia a suscitare la meraviglia»

La Serpentine Gallery e i Royal Parks di Londra ospitano la più completa mostra istituzionale del maestro dell’Arte Povera organizzata nel Regno Unito con opere che spaziano dal 1969 ad oggi 

Dal 3 aprile al 7 settembre la Serpentine Gallery ospita «Thoughts in the Roots», la più completa mostra istituzionale di Giuseppe Penone (Garessio, Cn, 1947) mai presentata nel Regno Unito, a cura di Claude Adjil e Hans Ulrich Obrist con Alexa Chow. La rassegna, estesa nei Royal Parks, pone l’attenzione sul continuo interesse dell’artista per il rapporto tra l’uomo e il mondo naturale, con opere che vanno dal 1969 ad oggi. L’abbiamo intervistato.

Come ha immaginato questo progetto?
La Serpentine è uno spazio espositivo particolare. È un padiglione che sorge in Hyde Park immerso nel verde e in stretto rapporto con il pubblico che percorre il parco. L’idea di fondo della mostra è quella di creare due luoghi: un giardino di opere nello spazio dell’architettura e un altro giardino, costituito da alberi-sculture in bronzo, all’esterno in dialogo con gli elementi del parco. Le opere sono state scelte con questo proposito tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche degli spazi.

Bettina Korek e Hans Ulrich Obrist raccontano che la mostra si apre con «A occhi chiusi», opera che testimonia il suo interesse nell’esplorare il rapporto tra la vista e l’atto di chiudere gli occhi. Forse una chiave di lettura del suo approccio, che osserva ma percepisce anche sensorialmente il mondo che la circonda?
«A occhi chiusi» si percepisce la realtà che circonda il corpo in un modo più preciso ed è anche la condizione che meglio si presta all’immaginazione e a integrarsi con la materia del mondo attraverso il contatto.

In mostra presenta opere nuove?
Sì, una nuova versione di «Respirare l’ombra» con foglie di alloro, concepita per lo spazio centrale della Serpentine, e un tronco svuotato che contiene resina raccolta dal tronco di alberi: nello spazio della galleria si diffonderanno quegli stessi profumi che sarebbe possibile percepire all’esterno. Infine, c’è un grande disegno murale, una «Pressione», la cui prima versione risale al 1974, che dilata l’impronta della pelle e la rende simile al disegno della vegetazione all’esterno. L’impronta ingrandita della pelle è disegnata sul muro con il carbone vegetale che si ottiene da una combustione lenta di rami e pezzi di legno: così anche nel materiale utilizzato per il disegno c’è un legame con la vegetazione del parco.

Il tema della traccia, delle impronte è una linea continua nel suo lavoro. Impronte anche di luce che, nel tempo, si sono fatte disegno, scultura, installazione, pittura, spesso fondendosi. 
L’impronta è un’immagine della pelle che identifica la persona, è involontaria, automatica, animale, non è il frutto di un pensiero ma di una presenza, e può riportare la parte della materia toccata in precedenza sulla superficie degli altri oggetti o dello spazio che ci circonda.

Negli anni recenti il colore è entrato nel suo lavoro, penso alle terrecotte «Avvolgere la terra-il colore nelle mani» così come a «Impronte di luce», un’ulteriore declinazione del corpo come matrice vivente. Colori che, ha raccontato, le sono stati ispirati dalla tavolozza di Le Corbusier.
La tavolozza dei colori di Le Corbusier era pensata per lo spazio della sua architettura, e le tracce di immagini di «Impronte di luce» sono state fatte su tele di 183x183 cm, che sono le dimensioni del «Modulor», il modulo che Le Corbusier ha elaborato tenendo conto della sezione aurea presente anche nella dimensione delle falangi delle nostre dita, che ripetono la successione numerica di Fibonacci. L’impronta si ottiene toccando e coprendo con la mano una superficie. L’etimo della parola «colore» è «coprire», ma il colore è luce.

Il rapporto con la natura parte dai boschi di Garessio e dalla terra a cui era legata la sua famiglia. Una relazione con la vita come esperienza fisica, sensoriale ma anche spirituale, che sin dalla stagione dell’Arte Povera negli anni ’60 è stata alla base della sua visione del mondo.
Le mie prime opere ad aver destato interesse sono stati i lavori sulla crescita degli alberi del 1968. Erano delle azioni in cui mettevo il mio corpo a contatto con elementi naturali (alberi, acqua, pietre, pioggia, sole) in modo paritario. Il momento del contatto e la sua percezione come un gesto minimo radicale era posto in relazione con il mondo. Erano opere che si inserivano nella ricerca di nuove espressioni che accomunava gli artisti di quegli anni, non solo dell’Arte Povera. Si introducevano nuove azioni e materiali nel linguaggio dell’arte abbattendo le convenzioni e la definizione dell’opera. La fine della Seconda guerra mondiale aveva cambiato radicalmente l’economia e la percezione delle dimensioni del mondo che si poteva immaginare, come pensava McLuhan. Un villaggio globale dove comunicazione e dialogo potevano creare un ordine nel mondo aiutando a scongiurare i conflitti. È in questo contesto che gli artisti hanno lavorato in un clima di grande libertà e positività, seppur consapevoli delle criticità che esistevano. La necessità di superare le culture specifiche delle diverse Nazioni portò a una semplificazione delle forme e a dei contenuti che fossero condivisi da popolazioni diverse. Con questa intenzione ho lavorato sul contatto e con gli elementi della natura, e continuo a farlo ancor oggi, convinto che la condivisione dei pensieri e delle sensazioni che nascono osservando e toccando la materia sono state, sono e saranno simili per tutti e l’attrazione e lo stupore che un’opera d’arte produce scaturiscono sempre dalla forma e dalla materia. 

Una materia che nelle sue opere è fisica ma anche evocata, penso ai suoi lavori sul respiro, sull’ombra. Una materia che lei ha sempre cercato di assecondare, imparando dall’identità dei vari materiali impiegati, il legno e il marmo, poi la terracotta, il bronzo, il vetro.
L’espressività dell’arte è la materia che, organizzata su una superficie o nello spazio, diventa linguaggio. Non ci può essere espressione nell’arte senza tenere conto della materia, anche quella invisibile come il respiro. È sempre la materia a suscitare la meraviglia che accomuna una scultura o un dipinto di 3mila anni fa a un’opera contemporanea. Capirla ed esaltarne le caratteristiche permette una migliore espressione e, di conseguenza, la possibilità di identificarci con la sua presenza. I materiali che impiego mi interessano per la loro durata e resistenza che dilatano nel tempo la vita dell’opera. Opere realizzate negli anni Sessanta sono presenti e attuali proprio grazie alla materia di cui sono fatte.

Nella natura ha compiuto un viaggio che è stato anche dentro sé stesso e dentro il concetto stesso di individuo, riconoscendo sempre nell’albero un alter ego, a partire dal corpo fisico dell’albero.
Quello che chiamiamo natura è ciò che ci circonda e che non riconosciamo come prodotto dell’uomo, ma l’uomo è natura e ciò che definiamo natura è in realtà un prodotto dell’uomo. Se si pensa che l’uomo è una parte della natura e che ne subisce le mutazioni e le metamorfosi, diventa facile immedesimarsi in altre forme e processi di vita. Questo è ciò che ho intuito quando ho fatto i miei lavori sugli alberi. Il mio corpo era associato al corpo dell’albero, che ha un ritmo di vita diverso. La frequenza del nostro respiro è la durata di un giorno e di una notte per l’albero. Il mio lavoro lo definisco scultura, ma che cos’è un albero se non una scultura vivente, la cui forma ha la necessità della sua esistenza in ogni sua parte?

I tronchi, infatti, sono il soggetto di molte sue opere celebri, dalla serie «Alberi» degli anni ’70 ad «Albero di cuoio» del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia nel 2007, al grande albero «Idee di pietra-1532 kg di luce» che accoglieva alla Bourse de Commerce di Parigi, dove si è appena conclusa una grande mostra dedicata all’Arte Povera.
È stato proprio pensando all’albero come scultura che nel 1969 ho scolpito delle travi, materiale da costruzione lavorato in forme geometriche, facendo sorgere dalla materia del legno la forma dell’albero che li aveva prodotti. Ho continuato, nel tempo, a pensare ad altri aspetti dell’albero, la scorza ad esempio, che può essere associata alla nostra pelle, o alla sua stupefacente struttura capace di sostenere il peso del vento, della neve, una struttura che si innalza alla ricerca della luce sfuggendo alla gravità, contrapponendo la forza vitale della verticalità all’orizzontalità della morte. Gli alberi, fusi in bronzo per garantirne la durata, recano il peso delle pietre nelle biforcazioni dei rami.

Come vede il mondo della natura oggi, questo ambiente sottoposto a uno sfruttamento drammatico e senza ritorno? A volte, suoi alberi totemici, che in fondo sono sradicati e trasformati in simboli, sembrano evocare un rapporto perduto tra umanità e natura, e anche dell’umanità con sé stessa.
Il mio lavoro non vuole essere simbolico, è semplicemente un osservare e cercare di trovare una sintesi dei pensieri e delle idee che la realtà «naturale» del mio corpo suscita in relazione con la realtà che la circonda. I grandi temi, le criticità e le riflessioni attuali sulla natura li condivido se penso alla sopravvivenza dell’uomo che sta distruggendo le sue fonti di vita, ma la natura esisteva anche senza la presenza dell’uomo. L’uomo non distrugge la natura ma solo sé stesso. 

Come le sembra il panorama attuale dell’arte? Una dimensione che si è aperta ad altre geografie e culture, che spesso si confonde con lo spettacolo.
Stiamo vivendo grandi mutamenti che sono maggiori rispetto agli anni Sessanta. È naturale che gli artisti reagiscano a questa nuova realtà che permette a generi, Paesi e culture diverse di confrontarsi. Nel tempo emergeranno le opere più significative.

Ritiene che l’Intelligenza Artificiale sia una risorsa o una minaccia? La incuriosisce come strumento creativo?
Sicuramente è un mezzo che aumenta le possibilità di immaginazione. Credo sia una grande risorsa, ma non credo che cambierà l’uomo, che continuerà a stupirsi della vita.

A che cosa sta lavorando?
All’illusione della mia presenza nel tempo attraverso la mia opera.

Olga Gambari, 31 marzo 2025 | © Riproduzione riservata

Penone: «È la materia a suscitare la meraviglia» | Olga Gambari

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