Giorgio Bonsanti
Leggi i suoi articoliDal 14 al 16 novembre 2018 si tenne al Palazzo Ducale di Venezia un convegno sul restauratore bergamasco Mauro Pellicioli (1887-1974), uno dei più noti e influenti del secolo scorso. Rallentati comprensibilmente dalla pandemia, escono adesso gli atti (Mauro Pellicioli e la cultura del restauro nel XX secolo, a cura di Silvia Cecchini, Maria Beatrice Failla, Federica Giacomini e Chiara Piva, 392 pp., Sagep Editori, Genova 2022, € 50). Una prima presentazione è stata all’Accademia Carrara di Bergamo il 4 luglio; una seconda è prevista a Venezia in ottobre.
Promotrice del convegno e degli atti è l’Associazione Giovanni Secco Suardo, che trae il nome dal grande restauratore dell’Ottocento e creata dal discendente Lanfranco; fra i suoi molti meriti (ricordiamo Asri, l’Archivio Storico dei Restauratori Italiani), per cui il restauro italiano gli è riconoscente, registriamo dunque oggi anche questo.
Convegno e atti sono stati un’iniziativa importante, perché Pellicioli, restauratore preferito di Roberto Longhi ma anche di figure di cui emerge recentemente sempre meglio la centralità come Ettore Modigliani e Fernanda Wittgens a Milano e Vittorio Moschini a Venezia, ha attraversato da protagonista cinque decenni del Novecento, sì che esaminare la sua figura di restauratore significa porsi al centro di fatti decisivi nell’evoluzione del concetto stesso di restauro e delle metodologie impiegate per realizzare gli interventi. Che nel caso di Pellicioli compresero presto o tardi quasi tutti i testi più importanti della nostra storia pittorica, da Giotto a Mantegna, da Giorgione al Cenacolo di Leonardo.
Gli interventi al Convegno riuniti negli atti (curati da quattro studiose di storia del restauro ben conosciute nel settore) non hanno mancato di apprezzabile oggettività, perché certo l’uomo non era cosa facile, né la sua figura può esser definita altrimenti che controversa; e quindi insieme alle tante luci sono emerse anche le molte ombre. Pittore dilettante di una certa qualità, da restauratore sapeva interagire con le committenze e gli interlocutori tanto da ottenerne una fiducia addirittura incondizionata, come nel caso dello stesso Longhi; lo scambio epistolare fra i due, fortemente rivelatore del loro rapporto, è stato studiato e pubblicato recentemente in due volumi da Simona Rinaldi.
Nelle lettere private Pellicioli (come del resto lo stesso Longhi) si abbandonava a espressioni di estrema crudezza; la sua forma mentis lo conduceva a interpretare quali nemici da colpire tutti coloro che esprimevano idee e linee di condotta che potessero confliggere con le sue. Faceva uso metodicamente di materiali dannosi di pericolosità conosciuta già al momento, come la soda e la stessa gommalacca; proclamando di saperne controllare gli effetti, anche se ad altri non sarebbe riuscito, e di poterseli dunque permettere.
Rifuggiva ostinatamente dall’impiego di materiali moderni, come le resine acriliche, e su quello un po’ di ragione ce l’aveva, anche se le sue alternative non erano raccomandabili. E utilizzava sapientemente i mezzi di informazione, scrivendo lettere e articoli in quantità, che spesso trovavano attenzione e amplificazione giornalistica; né rifuggiva da attività che per noi oggi sono assolutamente vietate ai restauratori, come la redazione di expertise e il commercio dei quadri.
Ma anche dall’interno dello stesso Istituto Centrale del Restauro, i restauratori che lo avevano visto all’opera, poiché agli inizi era stato incongruamente chiamato come restauratore capo (incarico che abbandonò ben presto), gli riconoscevano una straordinaria capacità di trattare un dipinto in maniera da presentarlo in un aspetto di grande accettabilità, armonizzando tinte e toni, conferendo un equilibrio visivo che incontrava gli apprezzamenti degli storici d’arte, autorizzati a condurre i loro studi fidando su quanto vedevano.
Una volta di più, siamo chiamati a contestualizzare e storicizzare gli oggetti della nostra attenzione; se torniamo alla vicenda del Cenacolo leonardiano negli anni postbellici come ce l’ha raccontata adesso Silvia Cecchini, vediamo che fra Gino Chierici e Guglielmo Pacchioni, che si affidavano ai restauratori Steffanoni, e Modigliani, Wittgens, Longhi, che giuravano su Pellicioli; e Cesare Brandi che non voleva proprio intervenire, perché il dipinto era ormai un rudere, avevano torto tutti quanti. Però bisognava essercisi trovati, e comunque si parla di settant’anni fa.
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