Stefano Causa e Arabella Cifani
Leggi i suoi articoliLa Storia dell’arte? Ci vuole orecchio
In tema di orecchi Ingres non si batte. L’orecchio da podio è l’«Odalisca» del Louvre. L’orecchio che nelle accademie si prende a modello per gli altri. L’orecchio illustrato nei manuali di disegno. Lo ha comprato dai magazzini, per lui sempre aperti, di Raffaello. E lo ha applicato alla modella trasformandolo in uno dei gioielli sul capo. Questo orecchio è disegnato in modo così insopportabilmente perfetto che, a fine secolo, a Cézanne non rimarrà che resettarlo, appoggiando sulla moglie una soletta di scarpe (a quel punto, a un segnale convenuto, Picasso ha riservato uguale trattamento a Gertrude Stein. Dopo la seconda guerra, scaduto il tempo delle oltranze formali, Jean Dubuffet nel 1946 ha sguinzagliato il mostro della palude dalle orecchie a fiocco nelle vesti di Henri Michaux).
Di sfuggita le orecchie sono un affare banale. Ma misteriosissimo se uno le scruti come un otorino, un innamorato in fase di approccio o un pittore del Cubismo. Questi gasteropodi che sporgono dal viso erano tornati in auge con la salvifica imposizione delle mascherine. Ne avremmo fatto a meno non fosse perché, a chi già difettato, le rendevano a sventola, allungandole in un soprassalto cartilagineo che sta a metà tra il vulcaniano Spock di «Star Trek» e il «Sant’Antonio da Padova» di Cosmè Tura, dalle orecchie che prolungano il carattere. Dalle ffp2 il nostro narcisismo è tornato piegato e piagato. Niente a che vedere con la perentorietà auricolare delle statue classiche.
Al Museo Nazionale di Napoli lo scatto del profilo dell’imperatore Caracalla rivela la forma di un orecchio assoluto, ricattatorio; così, ma in piccolo, non si resiste a sagomare lo stesso particolare dalla «Venere callipigia», ammesso sia lecito guardare questo nudo di schiena partendo dalle orecchie e non dal culo. Non si tratta di dettagli.
L’Umanesimo toscano non poteva soprassedere su un altro dei fori d’entrata del realismo occidentale (e anche in questo, il Masaccio della Cappella Brancacci, ricca di orecchie a piena vista, non fa che riprendere il Giotto della «Maestà» agli Uffizi). Così come l’orecchio è parte integrante dell’orografia di un volto per i maestri cresciuti in un’Italia che odorava di Fiandre (ricordate il ritratto di Antonello da Messina a Palazzo Madama? Della serie, mostrami l’orecchio e ti dirò chi sei!).
Ma nel prosieguo le orecchie dispaiono dispettosamente. Nei quadri più famosi degli Uffizi Botticelli finge che non ci siano. Anche Maddalena Doni, vent’anni dopo, le ha coperte perché, a Firenze, Raffaello aveva sperato di imparare da Leonardo come renderle per le mogli dei capitalisti della città (ma la «Gioconda», come «Ginevra Benci», è apparentemente senza orecchie e, nella dama con l’ermellino, si vedono giusto quella della bestiola). Certo, già indovino la fila di quanti, tra i lettori, protesteranno arricchendo il catalogo di padiglioni auditivi dei maestri del colore.
Ma, in pieno ’500, va meglio con Tiziano che, nella Flora, solletica le orecchie coi capelli (una sensualità sopra pelle, senza confronti fino a Manet e a Tolstoj). Fatto è che, meravigliose e orrende, le orecchie sono da maneggiare con cura. La ragazza con l’orecchino di perla ha metà suppedaneo, diciamo così, che spunta in un grumo di luce. Ma se non sei Vermeer o Rembrandt, è difficile far poesia con queste protomi di carne.
Dovremo dar ragione a uno scrittore come Manganelli quando insinua il sospetto che difficilmente la parola «otorinolaringoiatra», nove sillabe atte a uno scioglilingua, entrerà mai in un sonetto? Certo l’importanza, se non della qualifica, quanto meno del suo oggetto principale, non era mai venuta fuori con altrettanta impellenza nella cultura italiana quando, nel 1980, Enzo Jannacci, per chiudere i conti con il decennio peggiore della storia italiana, chiamava il pubblico a raccolta con canzone, al solito geniale e sghemba, «Ci vuole orecchio», per provare a chiudere i conti col passato: «Perché ci vuole orecchio bisogna avere il pacco immerso dentro al secchio… per fare certe cose». Che poi ci pensassimo a noi a leggere sta storia dell’orecchio come ci piacesse (quindici anni dopo, Luca Carboni asfalterà ogni sottigliezza di re Enzo concludendo: ‘ci vuole un fisico bestiale a resistere agli urti della vita…e certe volte anche alla sfiga’).
D’altronde era arrivato, dieci anni prima, Robert Wyatt a intitolare «La fine di un orecchio (The end of an ear)» una delle più esaltanti avventure musicali che possa impegnare chi abbia voglia. Il fatto è che, se ogni parte del corpo che sin qui abbiamo riassunto on line, offre il destro a una metafora (sei un tipo alla mano, bisogna partire col piede giusto, non prendermi per il sedere, che cazzo vuoi, ho un diavolo per capello, occhi delle mie brame…etc..) l’orecchio ha dalla sua una morfologia che lo rende tipico quanto mostruoso.
Così tipico che, nella seconda metà dell’8oo, Giovanni Morelli lo adottava a metro per riconoscere gli artisti. Come sono gli orecchi (o le orecchie) del Crocifissi di Cimabue? E quelle di Mantegna? E come le tratta Leonardo nelle teste di carattere? E Arcimboldo? Bisogna radunare a memoria e aprire il solito valzer di quadri ripescati per frammenti salvo poi, come in questi passaparola da giocarsi tramite invio di foto sui social, rendersi conto che avevamo dimenticato a casa l’orecchio migliore.
Noi, intanto, avremmo fatto la nostra scelta: che, in quanto ovvia e scontata, è la più difficile da difendere. Il solito Caravaggio, chi altri? Ma questa volta, al rallentatore, un orecchio chiama l’altro. Tre in tutto. L’aguzzino di lato, Cristo (quasi) al centro e, a chiudere la pagina, il carnefice di destra (quello in basso, che lega le fascine, è ricavato in negativo dalla preparazione). La scrittura è improvvisata, impossibile da copiare, rischioso emularla. Non è la prima cosa che uno nota di un dipinto estremo del maestro, giunto a Capodimonte da San Domenico Maggiore cinquant’anni fa. Ma per celebrare ciò che all’epoca fu un passaggio da un contesto cultuale a uno culturale (salvifico, dacché si era provato tre volte a rubare il quadro in chiesa), non ci viene in mente che riguardarlo a orecchio. Niente è più inedito di un capolavoro. E Caravaggio è tutto in quelle virgolature di luce e carne. Più umano, più vero.
[Stefano Causa]
Un girotondo di orecchie
Le prime orecchie che vengono in mente sono quelle del lupo di cappuccetto rosso che la tonta ragazzina interroga prima di essere mangiata («Nonnina, che orecchie grandi che hai!») e che nelle illustrazioni di Gustave Doré, dell’edizione parigina del 1862 non si vedono perché la bestiaccia se l’è mascherate con una cuffia. Ci sono poi quelle di Pinocchio e Lucignolo che crescono quando i due, nel paese dei balocchi, a furia di non studiare, si trasformano in asini e cercano con grossi cappelli di nasconderle: orecchie sempre sbandierate come minaccia materna anche a me se non avessi studiato.
E poi ci sono altre orecchie, più classiche. Quelle del «Giudizio di Mida» di Cima da Conegliano alla Galleria Nazionale di Parma, pelose, morbide ma pur sempre da asino. Quelle di Mida in cui sussurrano l’Ignoranza e il Sospetto nella «Calunnia» di Botticelli agli Uffizi. Anche il Dio Pan (che comunque è una mezza capra) si porta appresso oltre alle corna due orecchie aguzze che esprimono la sua sfrenata sessualità e ben gli conferiscono, visto che fa per solito lo stupratore seriale e dovrebbe stare in galera.
Onfale, in un quadro di Rubens al Louvre, tira le orecchie al povero Ercole temporaneamente rimbecillito dalle grazie della donna, e il gesto di tirare le orecchie, molto antico (Virgilio in una sua Egloga fa tirare dal dio Apollo un orecchio al poeta-pastore Titiro che voleva cantare poesie epiche per ammonirlo a cantare cose più terra terra), era contemporaneamente una ammonizione e una punizione.
Le orecchie si tirano poi anche ai compleanni ed è una delle cose più scoccianti che possano capitare. Nel dipinto di Artemisia Gentileschi con «Susanna e i Vecchioni» è invece tutto un sussurrare: uno dei due vecchi sporcaccioni sussurra nell’orecchio di Susanna minacce e lusinghe, l’altro sussurra direttamente nell’orecchio del compagno di merende. Sappiamo come andrà a finire ma il girotondo delle orecchie di Artemisia è uno dei più straordinari della storia dell’arte.
Le orecchie, che rappresentano comunque sempre uno dei nostri cinque sensi, sono anche suono e musica e si va dal «Concerto a una voce sola» di Gaspare Traversi del Nelson-Atkins Museum of Art, Kansas City dove uno degli uditori si allarga il padiglione per sentire meglio (e anche il gatto aguzza le orecchiette), fino alla «Beethoven’s Trumpet (With Ear)» di John Baldessari che è la quintessenza del suono figurato.
Ci sono poi quadri e disegni (soprattutto settecenteschi ma anche dell’Ottocento) dove persone che dormono tranquillamente vengono vellicate nelle orecchie da bambini o da amanti dispettosi. Effettivamente fare il solletico nelle orecchie ad uno che dorme è un dispettoso e sopraffino piacere e se poi il solletico viene fatto all’amato/a il gesto si carica di valenze erotiche visto che le orecchie sono in realtà una delle zone erogene più interessanti, come ben sanno gli intenditori. D’altra parte Jacopo Sannazaro nel De Partu Virginis afferma che la stessa concepì Gesù «per aurem»: una metafora della sessualità nascosta dell’orecchio che in occidente godrà di grande fortuna.
Tutti coloro che frequentano un Liceo e Accademia di Belle Arti disegnano fino alla noia le orecchie dei calchi di gesso, perché come altri dettagli del corpo umano sono veramente difficili da delineare. Guercino, da quel virtuoso che era le disegnò meravigliosamente, e non saperle dipingere bene era per un pittore che aspirava alle alte sfere una pecca insanabile. Di quella noia accademica dei calchi delle orecchie si dovette ricordare Magritte in un suo inquietante dipinto dove un orecchio (preso da un calco di gesso) si trasforma in conchiglia.
Esiste anche una vera e proprie poetica dell’orecchio che parte dalla Bibbia, dai Salmi: «Porgi l’orecchio, Signore, alle mie parole» (Salmo 5), quasi che Dio avesse orecchie come noi, e attraversa tutta la letteratura antica per giungere ad oggi, e, se ci fate caso, sentirete in una giornata parlare di orecchie molto più spesso di quello che si immagini. E poi i mille proverbi legati a questo organo da quelli italiani, classici a quelli biblici ed evangelici a quelli spesso stravaganti, dei fiamminghi e olandesi.
Un proverbio di Bosch illustra il tema «Il campo ha gli occhi, la foresta ha le orecchie» e dopo aver visto il disegno vi passerà la voglia di passeggiate campestri. E proprio pensando all’arte dei Paesi Bassi, non si può fare a meno di ricordare le cerose e viscide orecchie che camminano da sole trafitte da frecce e da un coltello nel «Giardino delle delizie» di Bosch e attorno alle quali si svolge una battaglia di replicanti umani usciti direttamente dalle sequenze di Blade Runner. Mangiato troppo? Digerito male? Incubi? No. Dallo spioncino di casa vedo due gigantesche orecchie che mi aspettano sul pianerottolo. Sono vere, e incedono lentamente: mi porteranno via.
[Arabella Cifani]
«Pas de Deux»
Strumenti umani come mani, piedi, occhi, peni e passere, dipinti dagli artisti e raccontati da Stefano (Causa) e Arabella (Cifani)
Le mani
I piedi
Le labbra
La passerina
Le tette
Gli occhi
I membri maschili
I nasi
I sederi
Le orecchie
I denti
I capelli
Le schiene
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