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Simone Facchinetti
Leggi i suoi articoliC’è una lettera che spiega il livello, oramai patologico, della malattia che stava divorando il collezionista Paolo Volponi. Risale al 1965 ed è indirizzata a Roberto Longhi: «Siccome il denaro che ho non è sufficiente nemmeno a placare la sete di una settimana, rispetto a tutti i 365 giorni arroventati dell’anno […]. Sono costretto a indebitarmi, a fare cambi, ricorrere ai mercanti, produrre clienti per loro, cercando di contagiarne altri». Diffondere l’infezione ad altri corpi e ad altre menti, «contagiarne altri», pur di continuare a vivere la dipendenza. La lettera è stata pubblicata da Alessandra Sarchi nel bel libro La felicità delle immagini il peso delle parole (Bompiani/Giunti, Milano-Firenze 2019).
Ora, sull’argomento, si aggiunge un testo della figlia Caterina Volponi che da solo vale il prezzo del volume Electa che raccoglie i contributi di argomento artistico scritti dal padre tra il 1956 e il 1994, anno della sua scomparsa. Nel saggio si legge anche la vicenda dell’ultimo acquisto di Volponi, mentre si aggirava inquieto in vestaglia all’Ospedale Niguarda: «cercando prima i gettoni e poi un telefono a muro funzionante, da cui poter chiamare l’amico Erma alla Finarte per dare con urgenza la propria offerta su un quadrone di Agostino Tassi prossimo a passare in asta, visto solo in catalogo ma bellissimo, drammatico, un veliero naufragato in un porto, tutto storto, con figure di soldati che si aggirano fra architetture metafisiche!».
Qui vorrei attirare l’attenzione solo su quelli che hanno a che fare con la malattia del collezionismo. Nella sensibilità dello scrittore urbinate la dipendenza non poteva essere disgiunta da un senso di responsabilità e dal conseguente interesse per tutto ciò che gli ruota intorno, la legislazione, il mercato dell’arte e le istituzioni. Come quando appunta: «Il mercato è legittimo, atteggiamento totale della cultura ufficiale demagogico e impotente. Il Ministero dovrebbe avere ufficio per seguire mercato». È una riflessione che risale al 1980, pochi anni prima di essere eletto senatore nelle file del Partito Comunista Italiano. È un tema che sviluppa con slancio in un contributo intitolato «Predatori d’Italia» dove si legge una proposta per quei tempi (ma anche per i nostri) rivoluzionaria. Non voglio togliere la sorpresa al lettore, dico solo che il suo sogno rimane una magnifica utopia.
Per capire la posizione eretica occupata da Volponi basti pensare a questa riflessione: «I grandi musei di tutto il mondo vivono e si ampliano culturalmente perché sanno gestire il loro patrimonio: vendono e comprano di continuo; selezionano, controllano il mercato; lo assistono e lo guidano per ricondurlo al loro superiore interesse». E in questa scia si colloca il dono fatto dagli eredi Volponi alla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, di molti quadri collezionati dal grande scrittore tra cui il magnifico «San Sebastiano» del Guercino. Volponi conosceva e frequentava il mercato, spesso andando controcorrente. Alla domanda di Lea Vergine: «Hai dei Monsù Desiderio?»; ha avuto il coraggio di rispondere: «Sì, dicono che portino iella, io li amo».
Scritti di critica 1956-1994. Il principio umano dell’arte
di Paolo Volponi, a cura di Luca Cesari, 414 pp., Electa, Milano 2024, € 32

La copertina del volume
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