Duncan Wooldridge
Leggi i suoi articoliI package digitali del Giornale dell’Arte sono focus semestrali che presentano articoli di approfondimento commissionati per l’occasione ad autori internazionali. L’obiettivo è analizzare, discutere ed esplorare le tematiche più significative per la fotografia e la cultura visiva contemporanea attraverso voci autorevoli provenienti da diversi background.
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Nonostante ogni presunzione si possa avere sulla loro piattezza e bidimensionalità, le fotografie sono al contempo sia una superficie di rappresentazione che un oggetto vivo. La loro capacità figurativa è riconosciuta, quasi scontata, ma possiedono anche una presenza fisica in quanto oggetti, che seppur scarsamente osservati, agiscono su di noi ed entrano in dialogo con gli spazi in cui vengono esposti. Forse è proprio perché la fotografia può essere ultra-sottile (come una spicchio o una scaglia, piuttosto che una lastra) che ci concentriamo su ciò che rappresenta e non sul suo supporto o sul materiale di cui è fatta. Eppure le capacità della fotografia di agire e di influire sulla nostra percezione del tempo e dello spazio, ora e in futuro, si riscontrano anche nei sottili e quasi impercettibili aspetti oggettuali dell’immagine. Esploreremo questa sottile ma significativa materialità, con un interesse per la fotografia come oggetto tridimensionale, che definirò provvisoriamente «involucro dell’’immagine».
Un buon punto di partenza non può essere la stampa sulla carta sottile, seppur ai nostri occhi digitali appaia decisamente fisica; né lo schermo, che ci incoraggia a pensare a tutte le immagini come assolutamente immateriali, spazzabili via con un solo colpo di dita verso l’archivio Cloud. Potremmo invece cominciare da qualcosa che si colloca nel mezzo, prendendo in esame le stampe su vinile, su carta da parati (blueback) e i banner in pvc che oggi costellano il paesaggio e le gallerie d’arte e fotografiche contemporanee. Una presenza talmente permeante del nostro ambiente e della pratica artistica contemporanea da richiedere una certa attenzione.
Precursori di immagini
Dovremmo tuttavia considerare anche due interessanti precursori: «Photopath» di Victor Burgin, un facsimile fotografico di una porzione del pavimento di una galleria, accuratamente assemblato in scala 1:1, che gioca con la verosimiglianza e la mutevolezza che si verificano simultaneamente; e «Photosculpture» di John Hilliard (1966/1968/70), una scultura realizzata dall’artista ricoperta di stampe fotografiche della sua stessa immagine, avvolte intorno all’oggetto tridimensionale. L’interesse di Burgin riguarda almeno in parte la meccanica (e le difficoltà) della riproducibilità tecnica, ma anche i suoi effetti sulla visibilità e sulla trasparenza della fotografia. La ricerca di Hilliard si concentra invece su come appaiono gli oggetti quando vengono fotografati, consumati dal gesto fotografico e trasformati in nuovi materiali. Di fronte all’interesse di Burgin per la percezione dell’apparizione e della scomparsa dell’immagine, e alla manipolazione della fotografia da parte di Hilliard, che implica la dimostrazione della prossimità e della distanza da ogni oggetto rappresentato, iniziamo a confrontarci con la condizione, sempre duplice, della fotografia: le immagini sono allo stesso tempo simili e diverse dall’oggetto che rappresentano; ci permettono di avvicinarci e di prendere le distanze dal mondo per come appare.
Negli anni Ottanta, con l’affermarsi di generazioni di artisti cresciuti con la televisione e i mass media, sono aumentati gli interventi artistici nello spazio pubblico, soprattutto grazie a processi di stampa e approcci sperimentali: le potenzialità dei nuovi media si sono ampliate fino a includere i cartelloni pubblicitari e gli artisti hanno esplorato le nuove tecnologie di stampa della produzione industriale, convertite agli obiettivi dell’indagine artistica. Per esempio, in quegli anni a Vancouver, Jeff Wall e Rodney Graham espongono le loro opere utilizzando i lightbox pubblicitari: i loro esperimenti con il Duratran (una pellicola che permette la retroilluminazione, Ndr) replicano la stampa su tela di artisti come Hilliard, sfumando i confini tra pubblicità, pittura e fotografia.
Uno dei progetti dal maggior impatto sul pubblico è stato «Untitled (Billboard of an Empty Bed)» di Felix Gonzalez-Torres, realizzato per il Museum of Modern Art nel 1992. Utilizzando 24 cartelloni pubblicitari sparsi per New York, Gonzalez-Torres rese pubblica la politica delle vite private sulla scia della crisi dell'AIDS. Una di queste immagini mostra la traccia impressa dei corpi assenti di Gonzalez-Torres e del suo compagno sui cuscini del loro letto, trasmettendo un senso di assenza e perdita e suscitando così una nota malinconica all’interno della cornice dei tabelloni pubblicitari, di solito scrupolosamente curate per produrre un effetto visivo positivo.
Allo stesso modo, anche Jenny Holzer, Alfredo Jaar e Barbara Kruger hanno fatto propri e trasformato i linguaggi della pubblicità in contro-narrazioni dagli effetti discordanti, sfruttando i poteri dei media e spostando l’attenzione sulle zone d’ombra della pratica sociale e politica. Le installazioni più recenti della Kruger hanno portato queste modalità di esposizione all’estremo, ricoprendo interamente gli spazi espositivi con statement grafici stampati su vinile, senza lasciare spazi liberi: gli slogan febbrili si susseguono a ritmo incalzante rispecchiando l’inarrestabile espansione degli scontri dialettici nel panorama politico e sociale contemporaneo, in piena ascesa di quella che i graphic designer chiamano «supergrafica», la copertura del mondo da parte della segnaletica e dell’informazione.
«Who’s Afraid of Jasper Johns?»
Uno dei primi e più interessanti esempi di metodi installativi dove la fotografia è usata come strumento chiave, è stata la mostra alla galleria Tony Shahfrazi di New York nel 2008, intitolata «Who’s Afraid of Jasper Johns?». L’artista Urs Fischer e il gallerista/curatore Gavin Brown hanno sfruttato l’interesse di Fischer per la riproduzione di opere e oggetti d’arte per sovrapporre due mostre: la mostra precedente, «Four Friends», che esponeva un gruppo di collaboratori della galleria (Donald Baechler, Jean-Michel Basquiat, Keith Haring e Kenny Scharf), è stata fotografata meticolosamente dal team di Fischer. Il vinile stampato che ne è risultato, un foto-murale che va dal pavimento al soffitto, come ha descritto la scrittrice e critica Suzanne Hudson, «si è appropriato dell’installazione [precedente] nel suo complesso: guardie, infrastrutture della galleria, pareti e opere d’arte», facendo di «Four Friends» un terreno o punto di partenza per un’ulteriore mostra di opere d’arte (di 22 artisti, tra cui Cady Noland, Cindy Sherman, Richard Prince e Jeff Koons) allestite sopra il vinile.
Nel loro intervento di riempimento e sovraccarico dello spazio, Fischer e Brown hanno operato contemporaneamente una rottura e una continuazione: la mostra fotografata (che, come ha osservato Hudson, è stata esposta in una condizione «congelata» per quattro mesi) è stata completata da una nuova e anarchica sovrapposizione, venendo così prolungata; la selezione dei nuovi artisti «sovrapposti» ha eliminato l’enfasi sulle abilità pittoriche che dominavano la prima selezione, ma ha continuato a dare spazio solamente ad artisti connessi al programma della galleria e al mercato dell’arte, operando una rottura relativa al tempo più che al gusto artistico o al posizionamento critico. Gli effetti fotografici dell’installazione erano ugualmente a doppio taglio: il vinile fotografico sconvolgeva l’esperienza dello spazio, consentendo di trovarsi in più condizioni contemporaneamente (da alcune inquadrature, più spoglie, sembra di intuire un processo di allestimento o disallestimento in corso, mentre altre stanze sono densamente affollate), anche se l’abile riproduzione tecnica scompariva a volte sullo sfondo, spostando o sminuendo l’intensità del proprio stesso lavoro. L’aspetto più significativo è che l’immagine è diventata allo stesso tempo un contenitore e un compressore: l’involucro fotografico che avvolge lo spazio descrive una densità di informazioni che sfiora il sovraccarico, senza però diventare claustrofobica. Mentre la resa ad alta risoluzione dello spazio espositivo è in bilico tra la spettacolarità e il gesto critico (l’inclusione, nelle stampe, delle guardie della mostra e quindi il loro curioso sdoppiamento, oltre a quello di opere d’arte innestate su altre in modi che creano nuovi montaggi o «mostri» della storia dell’arte), l'immagine si compiace del suo doppio «tracciamento», di cosa e come riproduce. In un’installazione di questo tipo, in cui l’immagine che avvolge uno spazio diventa una possibile realtà, ci rendiamo conto che l’immagine non solo mostra il mondo com’è, o com’era, ma gioca un ruolo nelle sua continuità e discontinuità, mantenendo le cose come sono o segnando l’inizio di nuove possibilità non ancora esaminate.
All’epoca della mostra, il critico Jerry Saltz aveva descritto l’effetto di «Who’s Afraid of Jasper Johns?» assimilandolo a una fotografia «walk-in» (in cui si può entrare, Ndr) di Louise Lawler. Lawler, molto apprezzata per le sue riflessioni critiche, ma contemporaneamente ludiche, sulle strutture delle istituzioni e delle collezioni, aveva anch’essa iniziato a lavorare con la stampa in scala e il vinile, allestendo una delle sue prime mostre con questo materiale, «Taking Place», nel 2009 alla Sprüth Magers di Berlino. Nella serie «Adjusted to Fit», Lawler riutilizza le sue immagini in una nuova scala architettonica. Per dimostrare la conflittualità tra architettura e immagine che il processo altamente specialistico di Fischer aveva messo in ombra, operando inizialmente su una singola parete, Lawler regola le impostazioni del file di immagine in modo che corrisponda alle proporzioni del muro. Se un muro è un po’ troppo lungo, l’immagine si adatta in base ad esso; se è più alto che largo, lo stesso. La distorsione dell’immagine per conformarsi alle esigenze e ai rapporti di forza dell’architettura, stampata in vinile, provoca un sottile effetto scenografico: all’inizio quasi impercettibile, Lawler astrae gradualmente le sue immagini fino alle soglie del riconoscimento. In un’installazione al Ludwig Museum di Colonia, Lawler ha avvolto una delle sue immagini iconiche, «I-O» (1993/1998), rappresentante le Brillo Box di Andy Warhol su un tappeto colorato vicino a una poltrona Eames, lungo quattro grandi pareti di una delle gallerie superiori del museo. All’interno dello spazio erano contenute alcune delle Brillo Box originali di Warhol. Avvolgendo l’edificio, lo spettatore e alcune opere del museo, il gesto di Lawler ha invertito il nostro rapporto con l’immagine. È il mondo a dare forma alle nostre immagini o sono le nostre immagini a dare forma al mondo?
Con il lavoro di alcuni artisti contemporanei, tra cui Jonathan Monk, Anastasia Samoylova, Ben van den Berghe e Alexey Shlyk, che usano abitualmente il vinile per modificare il nostro rapporto con gli spazi espositivi e con il mondo che ci circonda, è in atto una trasformazione della nostra percezione dello spazio. Il paesaggio odierno è ricoperto di immagini. Con la possibilità di apparire, scomparire e venire spesso sostituite, esse dimostrano come la fotografia possa muoversi tra condizioni di visibilità e invisibilità, mimetizzandosi nell’ambiente o al contrario trasformando radicalmente il luogo in cui viene esposta. Gli artisti citati in questo articolo dimostrano che le immagini possiedono un potere e che il modo in cui prendiamo il controllo del loro spazio di esposizione e fruizione è importante. Ci faremo imbrigliare dall’involucro dell’immagine o tracceremo nuovi mondi con le sue possibilità?
Duncan Wooldridge è un artista e scrittore, vive e lavora a Londra e Manchester. È autore di To Be Determined: Photography and the Future (SPBH Editions) e co-editore dell’imminente Routledge Companion To Global Photographies. È docente di fotografia presso la School of Digital Arts, Manchester School of Art.
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