Claudio Musso
Leggi i suoi articoliI package digitali del Giornale dell’Arte sono focus semestrali che presentano articoli di approfondimento commissionati per l’occasione ad autori internazionali. L’obiettivo è analizzare, discutere ed esplorare le tematiche più significative per la fotografia e la cultura visiva contemporanea attraverso voci autorevoli provenienti da diversi background.
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(Ante)prima dello scatto
«Ogni immagine incorpora un modo di vedere. Persino una fotografia. Perché le fotografie non sono, come spesso si crede, una registrazione meccanica. Anche se impercettibilmente, ogni volta che guardiamo una fotografia avvertiamo l’atto selettivo del fotografo: la sua visione è stata selezionata tra un numero infinito di altre visioni possibili» [1]. Per poter parlare del rapporto tra immagine fotografica ed estetica videoludica è necessario partire da un aggiornamento dell’idea stessa di fotografia. O, meglio, parafrasando John Berger, potremmo dire che è indispensabile comprendere come è cambiato il nostro sguardo su quegli strani oggetti che ci ostiniamo a definire fotografie.
È ormai pressoché assodato che viviamo in un mondo governato dalle immagini, per quanto rimanga ancora da capire se la tipologia di governo alla quale siamo sottoposti sia di natura democratica, autoritaria o perfino dittatoriale. Allo stesso tempo abbiamo sviluppato un’abitudine a pensare di appartenere a un momento storico successivo a un periodo che si è definitivamente concluso, di essere testimoni diretti di una svolta, di aver assistito a un passaggio epocale tra un prima e dopo. Ciò non è esclusivamente relativo ad un ritrovarsi a dover abitare una realtà in cui sopravvivere dopo la storia, dopo la modernità, perfino dopo la verità; questo cambiamento che potremmo definire paradigmatico riguarda da vicino anche l’arte e, ovviamente, la fotografia. Nell’era che registra mai come prima la fortuna del prefisso «post», viene spontaneo chiedersi se è possibile considerare conclusa la parabola della fotografia, se è giusto prenderne in considerazione il presunto decesso o, ancora, se è corretto presupporre di ritenerla superata.
Piuttosto che dichiarare consapevolmente di aver raggiunto il «dopo», è decisamente più sensato ammettere di essere andati ben oltre il concetto di fotografia che conoscevamo e in cui eravamo immersi [2]. A forzare i limiti materiali e concettuali dell’immagine fotografica sono stati, fin dagli albori, il punto di vista e l’operato di generazioni di artisti che ci hanno messo di fronte all’inevitabile esistenza di una fotografia senza la macchina da presa, di una fotografia senza l’impressione di un supporto, di una fotografia senza cornice, di una fotografia senza memoria, di una fotografia senza né luce né scrittura, di una materia instabile e fremente dotata di un inconscio tecnologico che, nonostante tutto, continuiamo a chiamare fotografia. Una condizione denominata appunto postfotografica che «fa riferimento alla fotografia che fluisce nello spazio ibrido della socialità digitale e che è conseguenza della sovrabbondanza visuale» [3].
In questo panorama composito e sfaccettato, tra le innumerevoli spinte che premendo sui confini della definizione hanno allargato l’accezione di fotografico fino all’attuale, frastagliata e magmatica area semantica, l’estetica del videogame ricopre indubbiamente un ruolo centrale, in particolare nell’arco temporale che va dalla fine del XX secolo ai primi decenni del XXI.
Esplorare un mondo (quasi) nuovo
«I videogiochi hanno introdotto nuove esperienze estetiche e trasformato lo schermo del computer in uno spazio di sperimentazione e innovazione accessibile alle masse» [4]. Con la diffusione massiccia di home computer e video game console avvenuta a partire dai primi anni ’80, il videogiocare è andato via via configurandosi come una pratica consolidata per un numero sempre crescente di adolescenti e adulti, portando a una inevitabile inclusione dell’estetica videoludica nell’alveo delle influenze fondamentali dell’immaginario visivo contemporaneo. Dalle prime immagini flat di «PONG», «Space Invaders» e «Pac-Man», agli scenari assonometrici di «SimCity» e agli ambienti prospettici di «Wolfestein 3D», fino alle più recenti e sofisticate esperienze immersive, l’elaborazione di una realtà parallela e la costruzione di nuovi mondi stanno alla base della pratica del game design.
È tanto curioso quanto in realtà comprensibile a questo proposito il fatto che tra gli approcci che gli artisti hanno destinato al videogioco la scelta iniziale sia ricaduta sull’esplorazione. Spedizioni, ispezioni, viaggi e ripetute perlustrazioni che nella maggior parte dei casi prevedono la raccolta di tracce con l’ausilio di uno strumento intrinsecamente fotografico: il fermoimmagine o lo snapshot. Mauro Ceolin, per esempio, nella serie «SolidLandscape» (2005) girovaga immortalando paesaggi in diverse tipologie di videogame che poi traduce in formato pittorico, rimanendo fedele al digitale con la tavoletta grafica o fuoriuscendo nell’analogico con pennello e tavolozza. «L’obiettivo ultimo non è certo quello di passare allo schema successivo, di conquistare il maggior numero di ricompense o di completare l’itinerario studiato dai creatori del gioco: il suo approccio eretico al gaming semmai punta a servirsi della deriva in chiave situazionista per uscire dalla pista e avventurarsi in una ricognizione psicogeografica» [5].
Di matrice prettamente fotografica i reportage di Marco Cadioli sono debitori di un voyeurismo che ha radici lontane. È lui stesso a dichiarare «Viaggio attraverso la rete come un turista giapponese in Europa» e a scegliere come nome d’arte Marco Manray fornendo connotati specifici per l’individuazione di una genealogia dello sguardo. I suoi blitz in noti videogame di guerra con il progetto «Arenae» (2005) e le successive incursioni alla scoperta di metaversi ante litteram come «Second Life» (2005) e «HiPiPi» (2008) sono ampiamente documentate da un cospicuo corpus di scatti. Nel primo caso grazie alla scelta del bianco e nero e di inquadrature coinvolgenti che portano l’osservatore al centro della scena, le immagini di Cadioli dialogano con i canoni del fotoreportage, mentre le vedute dei mondi virtuali sembrano aggiornare le ricerche sul paesaggio scrutandolo con gli occhi di un «Neue Wanderer».
Una ritrattistica al servizio della (de)costruzione di un’inedita figura di eroe pervade il ciclo «Action Half Life» (2003) del collettivo russo AES+F. In questo caso scenari bellici ricreati commissionando sfondi di videogame 3D e ambientazioni cinematografiche tratte dalle pellicole di «Guerre Stellari» danno luogo a una «fotografia che esibisce con eleganza e con glamour la sua natura artefatta, manipolata, ipermediata» [6] sulla quale si stagliano giovani ragazzi che imbracciano armi letali. Se è possibile considerare il videogioco come un medium, esso «è portatore di caratteristiche capaci di oltrepassare i limiti della propria “cornice” (o del proprio “schermo”), tanto da contagiare e modificare abitudini, comportamenti e pratiche consolidate» [7]. Già in opere a base fotografica della metà degli anni ’90 come «Play with me» di Mariko Mori o «Atom Suit Project» di Kenji Yanobe, era palpabile l’effetto che la struttura del videogioco e alcuni elementi fondanti, come la presenza dell’avatar, avevano impresso alla creazione di immagini.
Avanzare mixando, (re)mixare gli avanzi
«Il materiale manipolato non è più primario. Non si tratta più di elaborare una forma sulla base di materiale grezzo, ma di lavorare con oggetti che sono già in circolazione sul mercato culturale, vale a dire, oggetti già informati da altri oggetti» [8]. La fotografia, dopo la sua reinvenzione digitale, funziona proprio come questi nuovi oggetti. «Le fotografie non sono più oggetto di contemplazione, ma di uso compulsivo, un consumo costante che sembra quasi deteriorarle» [9]. Sia che si tratti di immaginare dimensioni alternative alla realtà sensibile che partano da un principio mimetico, sia che l’intenzione proceda sul sentiero opposto verso l’elaborazione di spazi irreali, il principio di base rimane il medesimo e si fonda sul riutilizzo dell’esistente. La fotografia, come il machinima (abbreviazione di «machine animation», termine con cui si indica una produzione cinematografica realizzata a partire da videogiochi), si presenta allora come «un processo e un prodotto identificati da un prefisso, “ri”, che esprime tanto un rinnovamento quanto una ripetizione. Si tratta, infatti di un rilancio e un riciclo, di una ricreazione e di una ricostruzione, di una rianimazione e una rigenerazione» [10].
Il percorso di Cao Fei, per esempio, dalle immagini del 2004 come «A Mirage» o «Game Over», ambientate in location reali che innescano un dialogo contrastivo con i travestimenti dei personaggi, al progetto «The Fashion of China Tracy» (2011), sorta di servizio fotografico di moda completamente realizzato in luoghi virtuali, punta a un inattendibile (iper)realismo sancito e garantito dal mezzo utilizzato. Su un altro versante il lavoro di Cory Arcangel parte da una manomissione del corretto funzionamento del videogioco in grado di generare contenuti e immagini puramente decorative come in «Super Mario Clouds» (2002) arrivando a sfiorare l’assenza di segnale nella serie «Photoshop CS» (2008). Tra fotorealismo e astrattismo si impone infine una terza via che fa dei detriti della rete il soggetto prediletto per indagini vagamente fotografiche. Jon Rafman con «9 Eyes» (2008-in corso) sonda i confini di Google Street View fino a quando non si imbatte in situazioni contraddittorie o errori di sistema che spesso riguardano i soggetti rappresentati, giungendo a riformulare il principio dell’istantanea, così presente nella street photography, e rendendo l’autorialità sostanza malleabile, ancora una volta.
Claudio Musso, PhD in Archeologia e Storia dell'arte, è critico d'arte e curatore indipendente. Attualmente è docente di Fenomenologia delle arti contemporanee e di Teoria della percezione e psicologia della forma presso l'Accademia G. Carrara di Belle Arti di Bergamo dove ricopre il ruolo di Coordinatore del corso di Pittura e di Faculty Advisor del programma Erasmus+. Ha pubblicato numerosi articoli, testi critici e saggi, alcuni dei quali sono stati raccolti nel volume Dalla strada al computer e viceversa (Libri Aparte, Bergamo 2017).
Note:
[1] J. Berger, Ways of Seeing, Penguin Books, Londra 2008, p. 10.
[2] Cfr. J. Ritchin, Dopo la fotografia, Einaudi, Torino 2012.
[3] J. Fontcuberta, La furia delle immagini. Note sulla postfotografia, Einaudi, Torino 2018, p. 3 e pp. 23-29.
[4] H. Jenkins, «Games, the New Lively Art», in J. Hartley (a cura di), Creative Industries, Blackwell Publishing, Londra 2005, p. 313.
[5] C. Musso, «Oltre il giardino segreto. Sulle tracce del paesaggio nello sguardo di Mauro Ceolin», in M. Ceolin, Entrare nel tempo, omaggio a L.R., Johan & Levi, Monza 2022, p. 9.
[6] D. Quaranta, «AES+F», in M. Bittanti, D. Quaranta, Gamescenes. Art in the Age of Videogames, Johan & Levi, Monza 2006, p. 346.
[7] C. Musso, «(By)passare lo schema», in P. Branca, F. Lorenzin (a cura di), Textural Videogames. Universi per un’esplorazione emozionale, lulu.com 2016, p. 10.
[8] N. Bourriaud, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, postmedia books, Milano 2004, p. 7.
[9] V. Tanni, «Maps and legends. When photography met the web», in Futurspectives. Fotografia Festival Internazionale di Roma, Postcart Editore, Roma 2010.
[10] M. Bittanti (a cura di), Machinima. Dal videogioco alla videoarte, Mimesis, Milano 2017, p. 9.
L’autore intende segnalare che per il presente saggio è stata fondamentale la lettura e l’approfondimento di testi e cataloghi di mostre risultato delle ricerche pionieristiche che in Italia sono state condotte da Matteo Bittanti, Domenico Quaranta e Valentina Tanni, tra gli altri.
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