Matteo Bittanti
Leggi i suoi articoliI package digitali del Giornale dell’Arte sono focus semestrali che presentano articoli di approfondimento commissionati per l’occasione ad autori internazionali. L’obiettivo è analizzare, discutere ed esplorare le tematiche più significative per la fotografia e la cultura visiva contemporanea attraverso voci autorevoli provenienti da diversi background.
ARTICOLI CORRELATI
Da circa trent’anni, gli spazi virtuali dei videogiochi e i personaggi che li «abitano» sono immortalati da giocatori che preferiscono scattare fotografie e catturare immagini anziché rispettare gli obiettivi prestabiliti dal designer. In questo caso, «vincere la partita» assume un significato molto differente rispetto a quello convenzionalmente inteso: più che giocare ai videogiochi, questa tipologia di utenti gioca con i videogiochi.
Noto come in-game photography o virtual photography, il fenomeno indica «una moltitudine di pratiche e tecnologie nelle quali la fotografia e i videogiochi interagiscono tra di loro» [1]. Al pari di altre attività vernacolari e d’avanguardia nel contesto videoludico (è il caso del machinima, una delle espressioni più note della game art) anche l’in-game photography è sorta dal basso. Per dirla con il Michel De Certeau del seminale L’invenzione del quotidiano (1980), si tratta di una «tattica» anziché di una «strategia», ossia di un espediente utilizzato dai fruitori per crearsi degli spazi propri, autonomi e liberi in ambienti creati e regolati dalle istituzioni, in questo caso dai produttori, ovvero lo sviluppatore e il publisher.
La natura relativamente aperta, fluida e malleabile del videogioco rispetto ad altre espressioni della cultura pop (cinema, narrativa, fumetto) rende possibili interventi che spaziano dallo screenshotting/screengrabbing (l’atto di scattare uno screenshot, Ndr) alle manipolazioni dell’immagine per mezzo del photo mode, senza dimenticare le fotografie dello schermo con dispositivi quali la macchina fotografica e lo smartphone. In tutti i casi, il giocatore simula il funzionamento dell’apparato fotografico per generare delle immagini. Gli intenti variano: dalla documentazione all’espressione artistica, dalla ricerca alla sperimentazione pura. Parimenti, l’artefatto prodotto prevede la stampa delle immagini digitali ottenute e la loro esposizione negli spazi sacri del White Cube, la pubblicazione in un catalogo o libro fotografico, la condivisione online e così via.
In quanto pratica «metaludica», l’in-game photography accorpa le nozioni di «ludus» e «paidia» usate da Roger Caillois nel celebre I giochi e gli uomini. La maschera e le vertigine (1961) per indicare, rispettivamente, l’atto di giocare basato su regole note alle parti coinvolte, su obiettivi condivisi e su risultati inequivocabili vs. il giocare come attività spontanea, improvvisata, estemporanea e «giocosa». In altre parole, laddove alcuni giocatori strutturano l’attività fotografica su obiettivi predefiniti (per es., l’ambizione al fotorealismo piuttosto che la «cattura» di spazi di gioco normalmente inaccessibili, difficili da raggiungere oppure perturbanti e «weird», come nel caso delle glitch), altri preferiscono «scattare fotografie» in modo più libero, inconsapevole e istintivo.
Si noti che in tempi più recenti, gli sviluppatori hanno attivamente incentivato queste pratiche anziché scoraggiarle, spesso integrandole alle regole, alle norme e agli obiettivi prestabiliti del videogioco oppure creando hardware specifici per massimizzare la cattura dell’immagine: è il caso di Ansel, una tecnologia presente nelle schede grafiche di ultima generazione introdotta da Nvidia nel 2016. In questo senso, la fotografia videoludica rappresenta un esempio di ciò che la studiosa americana Katie Salen [2] chiama «transformative play» (2002, 2003), una forma ludica emergente che acquista una rilevanza significativa per i giocatori.
La complessità dell’in-game photography trova un riscontro diretto nell’eterogeneità di interazioni tra il videogioco e le immagini (ri)prodotte, l’apparato tecnico che rende possibile la cattura delle immagini e il fotografo, o «funzionario», per dirla con Vilém Flusser [3]. È parimenti complessa l’identità del fotografo virtuale: in alcuni casi, si tratta di un artista che si cimenta anche con l’in-game photography; in altri di un fotografo professionista che ha «scoperto» queste pratiche; in altri ancora di un giocatore che comincia a collezionare immagini digitali. In altre parole, tale figura è sia esogena che endogena rispetto al medium videoludico.
L’ossessione degli sviluppatori per il conseguimento di un’estetica iperrealistica ha inoltre favorito l’affermazione di figure professionali note come capture artist. Paragonabili a fotografi commerciali, questi giocatori immortalano paesaggi e ritratti grazie a sofisticate schede grafiche e sono spesso ingaggiati dai publisher per scattare immagini da usare in materiali promozionali, dal packaging al marketing. Questa tipologia di fotografo videoludico si rifà ai canoni della fotografia analogica e alla semiotica dell’immagine cinematografica e pubblicitaria, ma al contempo padroneggia la tecnica digitale indispensabile per ottenere un’estetica fotorealistica. È il caso di Duncan Harris in arte Dead End Thrills, attorno al quale è sorta una comunità di in-game photographer che persegue immagini «più reali del reale».
In queste pagine proponiamo una succinta mappatura dell’in-game photography, evidenziando alcune pratiche ricorrenti. Senza avanzare alcuna pretesa di esaustività, riteniamo che i profili indicati in questa tassonomia possano contribuire a illuminare un fenomeno complesso, affascinante e in continua evoluzione. È opportuno precisare che le categorie indicate non si escludono necessariamente: in alcuni casi s’intersecano.
Documentare la «natura»
Questo approccio prevede un’indagine critica della rappresentazione del naturale all’interno del virtuale. Il giocatore ignora lo scopo dichiarato del videogioco per immortalare ciò che incontra sullo schermo: sontuosi tramonti, scenari incontaminati, cime rocciose e così via. Spesso questi artisti mirano a riprodurre l’esperienza del sublime codificata dalla tradizione Romantica, in tutte le sue ramificazioni. È il caso di progetti come «Road trips» (2018), «Videogame landscapes» (2015, 2012) e «Videogame photographs» (2014, 2013) che il new media artist americano Justin Berry ha sviluppato per mezzo di una varietà di videogiochi («Battlefield», «Red Dead Redemption», «Tom Clancy’s Ghost Recon»). Ritroviamo un simile intento documentaristico nel lavoro dell’artista svizzero Pascal Greco, che nel libro fotografico Place(s) (2022) ritrae l’immaginario della vegetazione islandese, simulata nel videogioco «Death Stranding» (2019), secondo i canoni della fotografia di paesaggio. In «Virtual Botany Cyanotypes» (2016-in corso), l’artista irlandese Alan Butler compila un archivio della flora virtuale presente nei paesaggi videoludici, documentando la relazione ambigua tra la natura e la sua simulazione.
Glitching
In questo caso, l’imperativo consiste nel documentare le anomalie del codice che producono fallimenti tecnici interessanti, che si manifestano, per esempio, sotto forma di immagini difformi da quelle previste, personaggi deformi, ambienti «impossibili», strutture corrotte. Le glitch possono essere «accidentali» oppure «intenzionali», ovvero trovate oppure generate ad hoc dal giocatore desideroso di istigare (e successivamente preservare) una peculiare contingenza estetica. Per esempio, Robert Overweg e Natalie Maximova collezionano gli effetti perturbanti del glitching in una varietà di videogiochi. Su tumblr, gli anonimi collaboratori dell’iniziativa «Sims Gone Wrong» hanno per anni documentato le anomalie del simulatore di relazioni sociali «The Sims».
Le architetture dei mondi virtuali
Se il videogioco è innanzitutto un’esperienza spaziale anziché narrativa, non deve sorprendere il gran numero di giocatori-fotografi interessati a immortalare le architetture del virtuale e, nello specifico, le infrastrutture urbane (realistiche o immaginarie) dei più popolari videogiochi. Dalle metropoli di «Grand Theft Auto» (GTA) ispirate a un certo immaginario cinematografico e televisivo americano alle città delle serie fantasy («The Witcher», «The Elder Scrolls», «Final Fantasy» e molti altre) e sci-fi («Mass Effect», «Star Wars», «Bioshock»).
Artisti e designer come Gareth Damien Martin, direttore del progetto «Heterotopias», documentano il fenomeno attraverso una pratica critica e creativa che si estrinseca in pubblicazioni e mostre. Altri esempi includono i lavori di Thibault Brunet, che ha proposto un’interessante esplorazione fotografica degli spazi di Vice City, la replica virtuale di Miami nella serie di «GTA» o Trevor Raab, un altro giocatore-fotografo affascinato dalla vita quotidiana nelle città progettate da Rockstar Games, le cui immagini sono confluite nel progetto «Interdimensional» (2015). In alcuni casi, l’attenzione per le architetture ludiche sfocia nel replay: per esempio, Kaja Fuchs [4] ha riprodotto le celebri fotografie di Bernd e Hilla Becher all’interno del popolare gioco di esplorazione e costruzione «Minecraft».
Street photography
I videogiochi sono popolati da numerosi personaggi preprogrammati detti NPC (acronimo di «non-player character», in italiano personaggio non giocante) che abitano gli spazi urbani e gli ambienti in cui si muove il giocatore. Queste entità algoritmiche prive di reale autonomia sono tuttavia caratterizzate da animazioni, gestualità e comportamenti che rendono possibili situazioni impreviste ossia non pianificate a monte dal designer. Seguendo l’esempio dei fotografi di strada come Robert Frank, Lee Friedlander, William Klein, il giocatore tenta di catturare il «momento decisivo», per dirla con Henri Cartier Bresson. Nella serie «Fear and Loathing in GTA V», Morten Rockford Ravn crea immagini che documentano i personaggi digitali ai margini della società simulata di Los Santos (la replica di Los Angeles nel gioco) e affronta i temi della povertà, dolore esistenziale e alienazione della popolazione di NPC locale.
Si noti che molti videogiochi sono disponibili in modalità multiplayer, il che rende possibile la presenza simultanea di migliaia di utenti nel medesimo spazio virtuale. Ciò consente ai fotografi di documentare le interazioni sociali tra i giocatori umani e artificiali. Spesso questi progetti hanno una finalità di critica sociale. È il caso di «Down and Out in Los Santos» (2016-in corso) dell’artista irlandese Alan Butler, che documenta la «vita» dei senzatetto (NPC) di Los Santos in «GTA V».
Reportage
Un’altra categoria è riconducibile al fotogiornalismo e alla fotografia di guerra. È il caso di artisti e talvolta di collettivi di fotografi che documentano gli eventi, spesso violenti, che hanno luogo nei mondi virtuali. Si pensi al lavoro pionieristico dell’artista italiano Marco Cadioli, «Arenae» (2005), oppure ai più recenti progetti di Kent Sheely come «World War II Redux» (2009) e «DoD» (2009-2012) che si rifanno esplicitamente a Robert Capa e a una specifica tradizione fotografica. Nel mondo multiplayer online di «Grand Theft Auto V», un collettivo di giocatori ha fondato Media Lens Crew, documentando gli scontri e i conflitti urbani tra gang seguendo le logiche e le convenzioni del fotoreportage. Infine, nel 2014 il fotografo di guerra Ashley Gilbertson è stato ingaggiato da «Time Magazine» per immortalare ambienti e personaggi del post-apocalittico «The Last of Us Remastered», sfruttando la modalità fotografica per documentare gli effetti di una micidiale pandemia [5]. Un progetto indubbiamente profetico.
Re/play
Questa categoria corrisponde alla pratica performativa del re-enactment che ha una lunga tradizione nella storiografia e nel folklore (è il caso della rievocazione storica, un’attività che ripropone vicende o situazioni di epoche passate per finalità ricreative o di ricerca). Nel contesto artistico, la ricostruzione di eventi, situazioni ed episodi della storia recente (e meno recente), ha solitamente una funzione critica (è il caso delle performance dell’artista britannico Jeremy Deller).
In ambito videoludico, la pratica è espressamente «meta»: il giocatore-fotografo riprende, riproduce, talvolta espande e aggiorna, una performance artistica più o meno nota. Per esempio, nel 2015 Roc Herms ha riprodotto la controversa serie «A study of perspective» di Ai Weiwei con/in «Grand Theft Auto V» mentre tra il 2007 e il 2010 Eva e Franco Mattes hanno proposto una serie di reenactments in «Second Life» delle performance di Marina Abramovic, Gilbert & George, Vito Acconci, Chris Burden and Valie Export. COLL.EO (Colleen Flaherty e Matteo Bittanti) ha realizzato replay di alcuni progetti di Adrian Piper, Pope.L, Vito Acconci, Martin Parr in «Grand Theft Auto IV» e «Forza Horizon 2» e non si contano gli omaggi/remake della celebre opera di Ed Ruscha, «Twentysix Gasoline Stations» (1963) che hanno visto coinvolti artisti come Lorna Ruth Galloway, M. Earl Williams, Luke Caspar Pearson e Alan Butler.
Turismo
Come scrive Roland Barthes nel libro La camera chiara (1980), il gesto fotografico spesso è associato al desiderio di creare un ricordo di un’esperienza, di preservare un momento o un’emozione sotto forma di immagine. Questa pratica è paragonabile al turista che, mentre si trova in un viaggio, s’imbatte in una situazione particolare, esotica, affascinante o interessante e utilizza il proprio smartphone o macchina fotografica per conservarla e condividerla con altri.
Questa pratica ha una funzione eminentemente sociale anziché artistica: spesso i giocatori scattano delle foto di gruppo con i compagni di squadra oppure celebrano il conseguimento di un determinato obiettivo. In altri casi, le immagini diventano cartoline virtuali del metaverso. In «World of Warcraft», la pratica dello screenshot della propria «gilda» è un rito quasi obbligatorio, mentre le cartoline dell’artista cipriota Adonis Archontides scattate durante il lockdown del 2020 ritraggono il turismo virtuale del giocatore impossibilitato a lasciare le mura domestiche.
Matteo Bittanti è artista, curatore e accademico. Studia gli aspetti culturali, sociali ed estetici delle tecnologie emergenti. Il suo approccio interdisciplinare si colloca all’intersezione tra media studies, game studies e visual studies. Professore associato in Media Studies all’Università IULM di Milano, Bittanti ha svolto attività di insegnamento e ricerca presso la Stanford University, la University of California, Berkeley e il California College of the Arts di San Francisco.
Marco De Mutiis è Digital Curator al Fotomuseum Winterthur e ricercatore al Centre for the Study for the Networked Image presso London South Bank University. Con Jon Uriarte, ha creato e porta avanti la serie di live stream Screen Walks, e con Matteo Bittanti ha curato la mostra «How to Win at Photography – Image-making as Play» (2021-2022).
Note:
[1] S. Möring, M. De Mutiis, «Camera Ludica: Reflections on Photography in Video Games» in M. Fuchs and J. Thoss (Eds.), Intermedia Games – Games Inter Media: Video Games and Intermediality, Bloomsbury Academic, New York, 2019, pp. 69-94.
[2] K. Salen, «The Art of Machinima», in Future Cinema (catalogo della mostra), ZKM New Media Institute, Karlsruhe 2002; K. Salen, E. Zimmerman, Rules of Play: Game Design Fundamentals, MIT Press, Cambridge, Massachusetts 2003.
[3] V. Flusser, Per una filosofia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2006.
[4] M. De Mutiis, «Reenacting the Bechers in Minecraft by Kaja Fuchs», in «In-game photography», 27 marzo 2019.
[5] J. Raab, A. Gilbertson, A War Photographer Embeds Himself Inside a Video Game, «Time», 15 settembre 2014.