Ugo Nespolo
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Poco dopo la metà degli anni Sessanta, partivamo ogni venerdì da Torino per Nizza con Remo Pastori, fantasioso titolare della Galleria Il Punto. La meta era sempre l’incontro con Ben non lontano dal Vieux Nice al 32 di Rue Tonduti-de-L’Escarène dove saltava subito all’occhio una vecchia vasca da bagno sbattuta sul marciapiede colma di dischi usati, libri, oggetti indefinibili e ogni altra cianfrusaglia di cui traboccava l’intero Bazar su cui troneggiava una grande scritta in bianco e nero «Ben Doute de Tout».
Tutto era dipinto in nero con curiosi testi bianchi capaci di trasformare qualsiasi avanzo di rigattiere in una vera opera d’arte firmata e autenticata dall’autore. Eravamo nel regno di Ben Vautier, il quale, se gli avessimo chiesto di presentarsi, avrebbe cominciato di certo col dichiarare d’essere nato a Napoli da madre irlandese e da padre svizzero e di avere vissuto in Turchia, Egitto e Grecia. Subito dopo avrebbe sintetizzato il suo pensiero, tutto paradossi e ironia, con i suoi detti del tipo: «Ho paura di essere una nullità», «Amo gli spaghetti», «A volte l’arte mi sciocca», «Ho voglia di essere un albero» e così via senza fine. C’era proprio tutto Fluxus in quei suoi gesti innocui di sovversione individuale: arte dell’insignificanza, irrisione della «serietà», irruenza dei rimasugli di Dada, quell’atteggiamento di una cultura da negare, da sovvertire, da risvoltare, da insultare e soprattutto da banalizzare in uno sberleffo senza fine. Dal primo incontro nel gelido inverno del 1967, Ben Vautier mi era parso l’anima ludica, ironica, contraddittoria di Fluxus. Quel suo fantasmagorico «Magasin», regno dell’horror vacui, si era presto trasformato anche nel luogo canonico per gli incontri dell’École de Nice: Arman, Dietman, Alocco, Gilli, Raysse, Venet e tutti gli altri. Il suo negozio pazzo si trasforma anche nella Galleria «Ben Doute de Tout», dove le mostre facevano il verso alla sacralità delle gallerie titolate con la loro improvvisazione e il perenne elogio dell’irrisione.
Prende presto la via di Torino, dove Remo Pastori gestisce la Galleria Il Punto, certo non una delle più snob e ortodosse, ma una delle più eclettiche e generose, che forse anche per questo entra nel gusto di Ben e presto diventa teatro delle sue gesta sghembe. Dal suo traballante furgoncino due cavalli, regolarmente nero e ricoperto di testi lapidari, oggetti curiosi, scatole e corde, legni e pannelli, sbarca anche la madre ottantenne che esporrà la sera come opera d’arte. Non fu facile convincerlo a non eseguire la «Bagarre», pièce consistente in una lite con assalto agli ospiti dell’inaugurazione, che in genere finisce a cazzotti e cerotti e pronto soccorso.
Nell’aprile 1967, «Concerti Fluxus-Art Total» sono tre giornate di eventi che invadono Torino di un’irritante, marginale pazzia. Concerti continui di musica aleatoria, distruzione di violini, concerto per chiodi di Hidalgo e Marchetti, azioni di Joe Jones, Robert Watts e Arrigo Lora Totino ed esposizione di opere più che improbabili. Mezza mattinata era servita per l’occupazione della Galleria d’Arte Moderna che in quei giorni ospitava le opere del Museo Sperimentale di Eugenio Battisti. Una serie di azioni di cui la più spettacolare era stata la linea nera tracciata da Ben su un lungo rotolo di carta immergendo la testa in un secchio di vernice.
La sera, nella Sala delle Colonne stracolma del Teatro Stabile di Torino, curiosi, artisti, mercanti, intellettuali, tra cui Arturo Schwarz che di Avanguardie e Dada era maestro, per un travolgente «Concerto Fluxus-Art Total» dove René Pietropaoli, sbarcato dal nero furgoncino di Ben, Gianni Emilio Simonetti, Ben Vautier e il sottoscritto danno vita a uno straniante evento in cui, a tambur battente, si eseguono pièces di Maciunas, De Maria, La Monte Young, Yoko Ono, Nam June Paik, Alison Knowles, George Brecht e tanti altri.
«Fluxus cannot save the world», aveva scritto Ben su un grande pannello e anche «Volevo fare del nuovo e ho fatto come gli altri» e «L’art est inutile». È la coscienza del non riconoscere gerarchie nel fare arte, una rivolta che non fa sistema, una filosofia individuale fatta di anarchia e sovversione privata.