Philippe Régnier
Leggi i suoi articoliNathalie Obadia (Tolosa, 1962) ha aperto la sua prima galleria d’arte contemporanea a Parigi nel 1993, cui è seguita, nel 2008, un’antenna a Bruxelles. Già vicepresidente del Comité professionnel des galeries d’art dal 2005 al 2008, dal 2015 insegna «Analisi del mercato internazionale dell’arte contemporanea» a Sciences-Po Paris, la stessa università in cui, nel 1988, si è laureata in Relazioni internazionali.
È da poco in libreria, per le edizioni Le Cavalier Bleu, la nuova edizione del suo saggio Géopolitique de l’art contemporain, in cui la gallerista ripercorre l’evoluzione dei principali mercati dell’arte nel mondo, sconvolti anche dalla pandemia di Covid-19.
La prima edizione del suo libro è uscita nel 2019. Nel frattempo il mondo ha vissuto una pandemia. Secondo lei cosa è cambiato di più in tre anni?
Per tre anni abbiamo sperimentato uno scompiglio che non ha fatto che rafforzare quanto già si percepiva. La Cina si è chiusa in sé stessa. Già nel 2019 o nel 2020 si vedeva che il Paese non ambiva al soft power, anzi, era invece impegnato a rafforzare il potere interno, incoraggiando i cinesi a deoccidentalizzarsi. La Corea, dal canto suo, è diventata molto attiva e sta cercando di porsi come uno degli attori più importanti dell’area asiatica. Ci sono andata di recente e vi si percepisce da un lato il loro desiderio di promuovere la loro cultura, se non altro per dimostrare a Cina e Giappone che sono molto presenti; d’altro canto, sono anche molto aperti a ricevere artisti occidentali, tra cui molti americani. Da allora hanno organizzato una fiera e le gallerie straniere stanno aprendo delle sedi nel Paese, perché c’è un vero mercato e dei collezionisti.
Dall’altra parte c’è l’America, che dagli anni Cinquanta ha avuto la grande forza di dominare il mondo; all’interno del Paese, le richieste della società da parte di diverse minoranze (neri, latinos, nativi americani) sono molto forti e così pure le questioni di genere. Si tratta di movimenti molto radicali e molto esigenti. Nel sistema americano però queste richieste il mercato le «digerisce». Gli afroamericani rientrano completamente nel mercato, integrano l’offerta di gallerie potentissime e spuntano prezzi elevati. Gli americani hanno quindi capito che è necessario nominare direttori di musei, membri dei grandi consigli di amministrazione, che provengano dalla diversità. Integrando tutto, gli Stati Uniti riescono a essere sempre presenti. Sono dibattiti che si stanno svolgendo anche in Europa, seppur con un leggero ritardo. In realtà, lo scacchiere non è cambiato poi molto.
Però le basi di questo scacchiere si sono spostate perché, alla fine, l’egemonia americana ora deriva più da questi temi di dibattito sociale.
Sì, e il mercato lo sta recependo. Ricordo uno dei miei collezionisti di Miami, un «trumpista» duro e puro, che aveva opere di molti artisti afroamericani. Per lui erano prima di tutto americani. Il che dimostra la sua fiducia nell’arte del suo Paese.
Oggi nel mondo dell’arte le questioni sociali sono ampiamente trattate dai curatori. In questa seconda edizione del suo libro lei ne parla in modo più approfondito.
Sì, è così. Il curatore esiste da moltissimo tempo, fin dall’epoca dei Medici, quando doveva occuparsi della collezione. Più di recente sono comparse grandi figure come Harald Szeemann, Okwui Enwezor o Hans Ulrich Obrist, personalità che hanno un ruolo cardine, che creano relazioni e stabiliscono dei dialoghi. Orchestrano le tantissime biennali che ci sono nel mondo. Questo permette ad alcuni Paesi di ottenere visibilità e di ritagliarsi un posto nel mondo dell’arte. Alcuni curatori erano richiesti in tutto il mondo, come Harald Szeemann. Enwezor, americano-nigeriano, ha iniziato la sua carriera negli Stati Uniti. Dopo aver proposto istanze sociali, ha diretto importanti biennali e Documenta a Kassel, e prima della sua morte ha ideato l’attuale 15ma Biennale di Sharjah. I Paesi non occidentali si rivolgono a queste grandi figure allo stesso modo in cui si commissionano i musei alle archistar. Purtroppo però questo tende a globalizzare il dibattito.
Queste biennali permettono tuttavia di presentare artisti provenienti da altre scenari, in particolare dall’Africa.
Esattamente. Fa parte del ruolo di curatori come Okwui Enwezor riflettere sulla diversità, soprattutto dell’Africa, come si è visto a Documenta di Kassel nel 2002. Prima di lui anche Catherine David, a Documenta X nel 1997, aveva proposto un’apertura «non occidentale».
Anche le fiere svolgono un ruolo importante, e in Africa ne sono sorte diverse, in particolare a Lagos in Nigeria o a Marrakech, la 1-54. Nota un aumento del peso dell’Africa a livello globale?
La Fiera 1-54 di Touria El Glaoui (imprenditrice franco-marocchina, Ndr) è formidabile in tutte e tre le tre sedi, tra cui Marrakech. A livello globale, questo cambiamento è dovuto a diversi attori del continente africano, ma anche al fatto che negli Stati Uniti si sono fatti strada artisti afrodiscendenti. I Paesi che si stanno muovendo sono quelli anglofoni come il Ghana e la Nigeria, quelli francofoni come il Senegal e ovviamente il Marocco, ma anche il Sudafrica. C’è però ancora una certa fragilità, perché all’interno del continente non esiste una classe media abbastanza numerosa da poter costruire davvero collezioni d’arte contemporanea. È stata lanciata una fiera a Lagos, in Nigeria, ma non vedo come possa ambire a diventare in tempi brevi una fiera internazionale. Comunque è un Paese complicato. In Senegal c’è un ecosistema con la Biennale di Dakar, con i festival e i musei che stanno aprendo. L’artista senegalese Omar Ba sta investendo e trascorrendo più tempo nel suo Paese e l’afroamericano Kehinde Wiley è molto impegnato ad aprire una residenza per artisti. Fa parte del desiderio di trovare radici e di far sì che anche in questi Paesi succeda qualcosa. Ciononostante gli artisti africani più riconosciuti continuano a essere rappresentati da gallerie occidentali.
Nel tempo intercorso tra le sue due pubblicazioni, il ruolo di Parigi sembrerebbe essersi rafforzato, soprattutto con l’arrivo della fiera Paris+ da Art Basel.
Direi che il gruppo Mch, a capo di Art Basel, si è interessato a Parigi, creando la fiera Paris+, perché la capitale francese si era rafforzata. È stato l’ultimo atto che ha avuto luogo un anno fa e dimostra che a Parigi sta davvero succedendo qualcosa. Da un lato lo si deve alla Brexit, dall’altro al fatto che la Germania ha sempre meno peso sul mercato dell’arte, anche se Gerhard Richter è l’artista vivente più costoso, insieme a David Hockney. Ma dietro a questo, vediamo artisti molto politici. La Germania è un terreno vasto e di grande attivismo; da notare che le gallerie più dinamiche di Berlino hanno tutte aperto filiali a Londra o Parigi proprio per trovare un mercato più attivo. Parigi si è svegliata. Una grande classe media compra arte, non era mai successo.... Oggi in Francia abbiamo migliaia di collezionisti che acquistano sia artisti della scena locale sia artisti stranieri, grazie al lavoro svolto dalle gallerie francesi, stimolate dall’arrivo di marchi esteri che fanno una sana concorrenza.
Oggi un artista straniero chiede prima di tutto di esporre a Parigi, cosa del tutto nuova. E naturalmente Basilea ha guardato a Parigi, e ha visto che lì stava succedendo qualcosa, che era il centro dell’Europa, con tutto l’ecosistema di cui stiamo parlando, senza contare i vantaggi del turismo, degli alberghi, dei ristoranti...
Al contempo, a livello internazionale, la Francia è uno dei pochi Paesi insieme agli Stati Uniti a condurre una politica artistica su larga scala al di fuori del proprio territorio.
È così. Alla fine, si esprime il nostro soft power. L’esperienza dei nostri curatori è apprezzata in tutto il mondo. Il Louvre Abu Dhabi aveva appena aperto quando è stata pubblicata la prima edizione del mio libro; nel novembre 2022 ha festeggiato il quinto compleanno. Si tratta di un’influenza su quel territorio di estrema importanza: innanzitutto, l’architetto, Jean Nouvel, e poi tutto il personale, che è davvero straordinario. È davvero un’alleanza tra la gente del posto e i nostri specialisti francesi. E poi c’è il successo delle mostre, l’affluenza di pubblico. Questo fa sì che altri Paesi vogliano venire. In Medio Oriente, altre Nazioni si stanno svegliando: prima il Qatar, poi Abu Dhabi e ora l’Arabia Saudita, che sta cercando di affermarsi in tutta la penisola come il nuovo Eldorado culturale e artistico. A seguito anche della creazione di un’agenzia francese, Afalula, si percepisce che queste sono anche le ricadute del successo del Louvre Abu Dhabi (l’agenzia è il risultato di un accordo bilaterale tra Francia e Arabia Saudita, Ndr). Ed è l’intera scena francese a beneficiarne.
Géopolitique de l’art contemporain. Une remise en cause de l’hégémonie américaine?,
di Nathalie Obadia, 248 pp., éditions Le Cavalier Bleu, Parigi 2023, € 13,00
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