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Nathalie du Pasquier. Foto Carlotta Manaigo

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Nathalie du Pasquier. Foto Carlotta Manaigo

Nathalie Du Pasquier: «Amo costruire lo spazio tra le cose»

La pittrice francese ha esposto alcune opere nella Villa Savoye di Le Corbusier a Poissy, nelle Yvelines. Un viaggio nel tempo e nelle forme

Anaël Pigeat

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Quando lei era bambina sua madre dirigeva il Museo di Arti Decorative di Bordeaux. L’arte era importante per lei?
All’epoca i bambini non erano coinvolti nelle attività dei grandi come oggi! All’età di 12 anni vidi una mostra di Vassily Kandisky al Musée des Beaux-Arts di Bordeaux che mi ha colpita. Compiuti i 13 anni, quando gli altri compagni partivano in colonia estiva, mia madre mi portava in Italia dove lei si recava tutte le estati. Ero sola con lei. Nel viaggio verso la Toscana, ci siamo fermate a Ravenna. Mi piaceva che i mosaici in vetro fossero legati all’architettura. Poi a Firenze abbiamo ovviamente guardato Sandro Botticelli e Piero della Francesca agli Uffizi.

Che cosa l’ha portata verso la sua particolare pratica artistica?
Il caso! Non ho compiuto studi e sono partita di casa a 18 anni. Volevo rompere con la mia famiglia e con la cultura da cui provenivo, così sono partita per l’Africa con un amico: sei mesi nel Gabon e sei mesi in Africa dell’Ovest, in Camerun, Benin, Togo e Mali. Una volta tornata, non volevo studiare. L’anno dopo sono partita per l’India come molti della mia generazione e in seguito in Australia, facendo lavoretti per vivere. Un amico che frequentava l’École des Beaux-Arts di Bordeaux mi ha suggerito di provare il concorso d’ammissione, che ho passato. Ma avevo già fatto molte cose prima e questo ambiente non mi si addiceva. Così, ho colto l’occasione di fare la ragazza alla pari a Roma. Nelle mattinate trascorse a scuola dai miei bambini, disegnavo. Dopo qualche tempo, anche se trovavo Roma una città straordinaria, non capivo che cosa avrei potuto fare laggiù. Presi la decisione di restare in Italia e di raggiungere Milano, dove incontrai subito le persone giuste. Su consiglio del mio ragazzo di allora (e anche di adesso, si tratta dell’architetto e designer inglese George Sowden), ho cominciato a disegnare dei tessuti. In Francia, vige l’idea che senza titoli non si possa fare nulla nella vita. Allora, stentavo a credere di poter guadagnarmi il pane disegnando!

I suoi viaggi l’hanno ispirata?
Tutto quello che vedo ispira la mia arte. In Africa il modo in cui si veste la gente è magnifico! La loro attitudine nel portare i colori, di raccontare delle storie attraverso i motivi è completamente diversa dalla nostra.

Come si è creato il legame con il gruppo Memphis?
Quando Ettore Sottsass ha proposto a George Sowden d’integrare Memphis, George mi ha invitato a decorare le superfici degli ambienti da lui concepiti. Siccome è piaciuto, ho cominciato a realizzare io stessa delle stanze. Incontrare questo gruppo così giovane fu una fortuna immensa. Mi mostrarono i progetti per l’impresa Olivetti che si sono rivelati per me di grande importanza. Le loro fonti d’ispirazione non erano accademiche, provenivano dalle periferie del mondo e per questo hanno suscitato in me il desiderio di partecipare alla modernità del mio tempo.

Si parla molto oggi della condizione della donna. Lei è l’unica donna del gruppo Memphis…
Per me non è mai stato un argomento di discussione!

Che cosa l’ha colpita di Milano?
Fino a quel momento nutrivo il gusto per l’esotico e il passato. Milano mi piaceva perché non era bella a prima vista: mi attirava per la sua modernità.

Lei ha trascorso sei anni con il gruppo Memphis. In che modo ha intrapreso la via della pittura?
Memphis non era un ufficio né un lavoro fisso. Ognuno lavorava per sé e ci si trovava di tanto in tanto per decidere la nuova collezione. Sottsass è partito per primo portando allo scioglimento del gruppo. Ma facevo molte cose in parallelo e ho cominciato a dipingere. Nel 1987 ho capito che dovevo scegliere e ho smesso di fare la designer. Abbastanza a digiuno di principi della modernità, ho dipinto all’inizio scene mitologiche con personaggi inventati. Si sentiva in essi l’influenza dei motivi di Memphis. Verso il 1990 ho dipinto piccoli paesaggi domestici con oggetti del quotidiano, vetri, martelli, cacciaviti… Pochi elementi naturali a parte delle arance che sono forme bellissime.

Poi lei ha costruito dei piccoli oggetti o rilievi… un ritorno alla terza dimensione?
A partire dal 2003 e 2004, mi sono messa a modificare le cose che fabbricavo: ho dipinto bottiglie, vi ho aggiunto dei pezzi di legno colorato realizzando delle costruzioni, come si può constatare alla Villa Savoye. Nessuno riusciva a identificarle perché uscivano dal mio immaginario. Erano nature morte, un genere che mi ha sempre affascinata.

Guardava a Giorgio Morandi?
Come non guardare a Morandi! Certamente, ma non più che ad altri artisti del Novecento italiano: Giorgio De Chirico, Alberto Savinio… Guardavo anche alla pittura etrusca e alla pittura dell’Antichità romana. Gli artisti moderni che mi appassionano hanno anch’essi guardato alla pittura antica.

Lei passa di continuo dalla seconda alla terza dimensione e viceversa. Si potrebbe dire che è grazie alla pittura che è giunta a oggetti e rilievi che sono essi stessi, in un certo senso, delle pitture?
Gli oggetti sono nati come modelli per le pitture. Poi, siccome mi piacevano, ho scelto di farli esistere in pienezza.

In una mostra al Palais de Tokyo a Parigi, lei ha esposto dei piccoli teatri… L’esposizione sembra essere per lei un medium di per sé.
Molte pitture vi erano esposte. Avevo anche realizzato delle cabine, dispositivi che coadiuvano l’attività di allestimento, come facevo sin dal 1999. Tre grandi cabine permettevano di mostrare le pitture fuori dal contesto di una mostra tradizionale. Il progetto è nato molto rapidamente. Nella prima cabina avevo esposto cose amate ovvero delle riproduzioni di opere di artisti miei amici. Nasciamo dagli incontri che facciamo. La seconda cabina consisteva in un piccolo teatro di forme monocrome, con l’esterno dipinto a motivi scozzesi. In aggiunta c’erano due grandi dipinti di architettura a inchiostro e paesaggi metafisici legati da disegni astratti. L’ultima cabina aveva al suo interno dei totem sui quali stavo già lavorando.

A Poissy, la Villa stessa le serve da quadro espositivo.
Infatti. Quando sono arrivata qui, ho adorato il fatto che non fosse un ambiente troppo grande e ho cominciato ad apprezzarlo per le sue finestre, che nella casa hanno il ruolo dei quadri. Siccome non potevo appendere nulla ai muri, ho concepito dei pezzi autoportanti. Siamo andati in primo luogo a vedere la Villa Cavrois nel Nord della Francia, ma lì mi sentivo incapace di fare qualunque cosa. Amo i giochi di colore che nascono dalla Villa Savoye e mi piace che sia il contrario di un luogo perfetto. Provo piacere nell’installare le cose, migliorarle, comprese quelle che non sono di mio gusto.

Si ha l’impressione che la mostra si dispieghi nel corso della visita: i quadri entrano gli uni negli altri e alla fine non resta che una sola immagine…
Si, è una mostra molto divertente da fotografare.

«Chez eux». Perché questo titolo?
Mi sono accorta che tutto quello che potevo fare in questo luogo era ammobiliarlo: da loro…

Ha mai dovuto scegliere fra l’astrazione e la figurazione?
Quando ho finito le mie creazioni del periodo di Memphis, che erano assai astratte, ho avuto voglia di lavorare sulle immagini dell’immaginario (scene con personaggi), poi ho cominciato a fabbricare scene con oggetti e a rappresentarle in modo preciso. Ho amato costruire le ombre, la luce, le forme, lo spazio tra le cose. Su questo mi sono concentrata per vent’anni e credo che l’astratto venga proprio da lì. Nel 2008, non vendevo nulla e non avevo nessuno spazio per creare. Mi sono messa a fare cose su carta e senza alcun modello, con la pittura ad olio. Mi sentivo libera.

Lei ha detto in una sua vecchia intervista che considera il reale come «un catalogo in cui il più piccolo elemento può essere trasformato e trasportato in un altro universo». Che cosa significa?
Si, è vero. Questa riflessione si riferisce all’osservazione e alla fantasia.

In che circostanze ha incontrato il responsabile della galleria di Hong Kong che l’ha rappresentata negli ultimi vent’anni?
È stata la prima persona con cui ho lavorato e la sola dal 1988 al 2008. Dipingere è stato il colpo di fortuna più grande della mia vita. Aveva visto il mio lavoro in una piccola galleria ad Amsterdam tramite un amico designer ungherese. Teneva un’elegante galleria di design a Hong Kong, LeCadre Gallery, e collaborava con una galleria storica di Cork Street a Londra. Il suo sostegno mi permetteva di vivere e di avanzare nel mio apprendimento della pittura. Dipingendo, ho imparato a dipingere. A quel tempo, Hong Kong non era un luogo alla moda. Vi sono stata per la prima volta nel 1992, una città rumorosa dove la gente andava per fare soldi. Volevano comprare cose che li facessero viaggiare nel mondo e le mie nature morte erano ben recepite. Ho continuato a lavorare sulla nozione di armonia. Un argomento non troppo di moda.

Negli ultimi anni, il primo a interessarsi al suo lavoro è stato Luca Lo Pinto, curatore di una mostra alla Kunsthalle di Vienna. Un incontro determinante.
La mostra che mi ha proposto (15 luglio 2016 – 20 novembre 2016) ha cambiato tutto. Mi sono resa conto che il mio lavoro interessava ai giovani più che alla gente della mia generazione. Alla fine del 2015, Pierre Leguillon mi ha invitato a partecipare a un workshop a Ginevra e a un’esposizione a Sérignan, dove attualmente si sta tenendo una mia personale. Poi ho incontrato Omar Sosa, uno spagnolo, editore della rivista «Apartamento». Mi propose di pubblicare un libro sulla mia opera omnia, pittura e scultura, ma non ho voluto. Ho accettato tuttavia di fare un altro libro sulle mie creazioni di designer tra 1981 e 1987, Don’t Take these Drawings Seriously (Powerhouse Books, 2015). Mi ha permesso di tirar fuori molti disegni degli anni 1980 che non vedevo da molto tempo e di fare il punto sulla mia pittura. Ho cominciato a riflettere diversamente sull’allestimento dei miei oggetti.

In quale modo ha conosciuto Yvon Lambert, curatore della mostra alla Villa Savoye?
Nel 2012 ho incontrato Bruno, il libraio della galleria Yvon Lambert a Parigi che aveva lanciato la rivista «Apartamento» e mi ha proposto una piccola mostra di disegni. In seguito, ho creato il progetto di una pubblicazione con tiratura a pochi esemplari, come faccio spesso. Yvon si occupava di cose che non avevano nulla a che fare con la mia pratica. Nel 2016 alla libreria abbiamo presentato Don’t Take these Drawings Seriously con una mostra di disegni degli anni 1980. Yvon ha iniziato a guardare il mio lavoro, un giorno abbiamo cenato insieme al ristorante ed è scattato qualcosa.

Il contesto di una libreria entrava in perfetta risonanza con il design vero?
Esatto. Dopo la mia mostra a Vienna ho cominciato a lavorare con delle gallerie importanti e il prezzo delle mie opere è aumentato. Poter continuare a vendere delle serigrafie e delle pubblicazioni a buon prezzo mi piaceva molto. Non volevo essere rappresentata da una galleria in Francia, sono partita da tanto tempo, ormai sono italiana…

In Francia ha lavorato al CRAFT (Centre de recherche sur les arts du feu et de la terre) a Limoges.
Negli anni ’80, prima di dirigere il CRAFT, Nestor Perkal aveva una galleria a Parigi dove io e Georges Sowden abbiamo esposto. È stato uno dei primi a vendere questo genere di opere di design a Parigi. Siamo diventati amici, e quando ha preso la direzione del CRAFT nel 1993, mi ha proposto di andarci.

Che cosa ne è stato della sua collaborazione con i brand? Continua ancora?
Ero stata contattata nel 2019 da un editore di piastrelle di ceramica, Mutina, a Fiorano Modenese, per fare un progetto artistico. Il direttore invita ogni anno un artista per il quale organizza una mostra. Ho fatto dei monumenti in mattoni. Mi hanno chiesto di creare una collezione di piastrelle, poi dei paesaggi cui ho aggiunto degli animali in ceramica concepiti negli anni ’90. Non si tratta né di design né di pittura.

E le sue collaborazioni con Les Olivades?
Nel 2006 Miu Miu Prada ha creato una collezione di vestiti ispirati ai miei tessuti senza che io lo sapessi. Era un’ottima cosa consegnare alla moda ciò che avevo fatto. Poi sono stata sollecitata da American Apparel nel periodo in cui iniziavo a fare dei quadri astratti. Nel 2015 durante un workshop all’ECAL (École cantonale d’art de Lausanne), ho incontrato il designer Antoine Boudin la cui famiglia possiede Les Olivades. Mi ha proposto di lavorare con loro. Si dà il caso che la famiglia di mio padre, originaria di Neuchâtel in Svizzera, alla fine del XVIII secolo praticava l’«indiennage» (fabbricazione di tessuti dipinti o stampati) come Les Olivades. Ho sempre amato i tessuti provenzali, la loro storia di ibridazione, di disegni che viaggiano e si trasformano come sugli abiti africani. Mi ha molto divertito. E, soprattutto, tutto s’intreccia.

Traduzione di Mariaelena Floriani
 

Una veduta della mostra «Campo di Marte» (2021), Roma, MACRO

L’installazione di Nathalie du Pasquier nella metro di Brescia

Una veduta della mostra «Chez eux» (2022), Poissy, Villa Savoye

Anaël Pigeat, 08 settembre 2022 | © Riproduzione riservata

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