Micaela Deiana
Leggi i suoi articoliCavaliere della Repubblica per meriti ambientali, Daniela Ducato è l’imprenditrice più innovativa d’Italia per la rivista «Fortune». Con Edizero Architecture for Peace, nel distretto industriale di Guspini (Vs), crea prodotti per l’edilizia, il design, la moda e la cosmesi utilizzando eccedenze di origine animale, minerale e vegetale; una filiera all’avanguardia che non produce alcuno scarto e in cui le intelligenze di tutto il mondo danno vita a prodotti di eccellenza a chilometro zero.
Da quali esperienze formative nasce il suo percorso?
Per circa quindici anni ho lavorato in campo formativo, come istruttrice di tennis e come insegnante di musica nella scuola pubblica. In questo contesto ho iniziato a sviluppare progetti formativi multidisciplinari, che partendo dalla liuteria e dalla costruzione di strumenti musicali univano la musica all’arte e al paesaggio. Uno di questi progetti era dedicato alla bioacustica (lo studio del paesaggio vegetale nella sua dimensione acustica e sonora) ed è ancora al centro delle mie ricerche grazie a un lavoro che porto avanti con Federico Ortenzi, biotecnologo, e il suo gruppo di ricerca dell’Università La Sapienza di Roma. L’approccio matematico-musicale per me è una forma mentis con cui guardare e capire il mondo e agire strategicamente. Un’altra grande esperienza è stata a fianco di mia sorella Paola, filosofa e insegnante, con cui ho collaborato a tanti progetti formativi all’Università per stranieri di Perugia e all’Università di San Paolo: ho potuto affinare le mie capacità di confronto interculturale e interreligioso attraverso il potere della parola. Un continuo apprendimento grazie al quale ho preso coscienza di quanto sia una necessità primaria la costruzione di un nuovo umanesimo, in cui umanità e sostenibilità siano due concetti inscindibili. Oggi sono temi all’attenzione di tutti, ma vent’anni fa erano assenti.
Sono esperienze che l’hanno portata a una relazione ravvicinata con il mondo.
Ascoltare storie ed esperienze così lontane ti fa prendere coscienza della tua piccolezza e della cittadinanza globale di cui facciamo parte. Oggi è limitante collocare con precisione geografica un’azione o un prodotto. Tutto nasce in un luogo, ma tutto è figlio del mondo, di un collage di esperienze. Per questo parliamo di industria 4.0. Nei prodotti made in Sardegna o made in Italy le materie prime sono locali, ma hanno dentro expertise dell’India, del Giappone, della Francia. Visti in questa ottica tutti i prodotti sono un omaggio al mondo ed è importante costruire una comunicazione corretta, trasparente e tracciabile. Dobbiamo andare oltre la celebrazione della filiera del km zero e allargarla all’intelligenza collettiva, che non ha passaporto né può essere limitata da frontiere.
C’è stato uno spartiacque nel suo percorso?
Quando ho iniziato a partecipare a incontri istituzionali finalizzati a progetti e bandi pubblici., nei focus group composti da imprese e professionisti dello stesso settore, guidati da un facilitatore della comunicazione. Spesso percepivo come distante il processo o prodotto nato da quel confronto, a volte non si otteneva nessun risultato a fronte delle ingenti somme pubbliche impegnate. Parliamo sempre di sprechi di risorse (acqua, suolo, cibo), ma non pensiamo a quanta intelligenza e tempo si possono sprecare con facilità. Non dico che questa modalità di lavoro non porti a buoni risultati, semplicemente non era la condizione in cui io potevo dare il meglio. Un giorno un mio vicino di casa che partecipava a quegli stessi tavoli di lavoro ha espresso lo stesso disagio, chiedendosi se persone di una stessa comunità, che vivono fianco a fianco, per parlare avessero davvero bisogno di un facilitatore (che evidentemente non facilita). Ho capito che il nostro disagio derivava dall’essere costretti in un linguaggio distante che non ci apparteneva, non muoveva nessuna emozione, rendendoci utenti e non artefici. Quel disagio mi ha aiutato a ribaltare la situazione e a impegnarmi perché i processi di animazione territoriale riconquistassero un’anima collettiva e senza sprechi di denaro.
Nel farlo ha attinto alle sue precedenti esperienze.
La musica, innanzitutto. Per incontrarsi davvero nel dialogo, le persone devono essere sintonizzate su un sentire. Il linguaggio è potente, è composto da parole, suoni e toni ed è questa musica che ci aiuta a predisporci. Le parole usate in certi contesti, calate dall’alto, spesso sono sentite come abusate, non hanno più la capacità evocativa che può portare all’accensione del pensiero. Le parole giuste ci predispongono a un’emozione positiva e ci aiutano a essere propositivi, quelle sbagliate possono ferire o muovere in noi paure inconsce e bloccare la nostra spinta all’azione. Da questo cambio di prospettiva sono nati grandi progetti, che mi hanno vista mediatrice fra il mondo pubblico e quello delle imprese. Per esempio grazie alla sinergia con l’Assessorato alle Attività Produttive, a Guspini, dove vivo, con un progetto partecipativo abbiamo creato una nuova toponomastica per la zona industriale intitolata alle donne scienziate, ai nobel femminili mancati, alle donne visionarie e pioniere sconosciute ai più. Tanti nel territorio non conoscevano Eva Mameli, sarda, madre di Italo Calvino, prima direttrice donna di un orto botanico e prima docente universitaria di un corso di Botanica.
Come ha reagito il territorio a questi input?
Benissimo e lo dico con grande riconoscenza. Perché i progetti riescano ci devono essere un sentire che appartiene a molti e il coraggio di andare avanti. Ma soprattutto non bisogna avere la presunzione di fare cambiare idea agli altri. Dobbiamo cercare persone con cui sia facile ritrovarsi. Sono una persona a risparmio energetico, mi interessa occuparmi solo di ciò che sento fattibile e armonioso. Rodari diceva che se non c’è una strada possiamo inventarla. Con la condivisione si può: senza sprecare energie a convincere chi non la pensa com noi.
Gli stereotipi, come quello della «sardità», rendono difficile vedere nuove strade.
Io ringrazio ogni giorno di vivere dove vivo, per me quest’isola è speciale, è il centro del mio mondo e voglio dare valore al centro del mondo. Ma, se abitassi in un altro luogo, sarei figlia di un altro centro del mondo. Non ti dirò mai che abbiamo il mare più bello del pianeta. Una certa idea di superiorità distorta è diseducativa.
Come uscirne?
Molto dipende dalle storie che ci hanno formato. Per me, rimasta orfana di mio padre da ragazzina con una situazione familiare molto difficile, è stata molto forte l’esperienza della fragilità, della sopravvivenza, anche materiale, capire di avere bisogno degli altri e imparare a chiedere aiuto gestendo il senso di vergogna, cercando di dare e restituire ciò che potevo, di avere gratitudine, ed essere consapevole di quello che avevo. Nella cultura isolana di un tempo del buon vicinato, c’è la pratica de «s’aggiudu torrau» (l’aiuto si restituisce): io oggi aiuto te a fare la casa, tu domani aiuti me a vendemmiare. Non è solo un aiuto pratico, c’è una grande componente immateriale, emozionale. Ho avuto la fortuna di vivere un pezzo di questa economia di relazione che ti porta a guardare le cose con gli occhi degli altri. Dobbiamo guardare al territorio con questo sguardo collettivo. Spesso nelle scuole sento dire: «Parto perché qui non c’è nulla» e magari non si sa che dietro casa abbiamo zone industriali fra le più innovative d’Italia. La parola «nulla» annienta anche ciò che esiste ma non si vede.
Come si prende coscienza del presente?
Per esempio con il lavoro che facciamo con le filiere produttive di Edizero. Architetture di Pace opera in questa direzione. La parola chiave per capire questo approccio è: zero. Zero acqua, zero contenuto di petrolio, e quindi zero contenuto di guerra. La modalità predatoria di accaparramento delle materie prime, comprese quelle rinnovabili, crea conflitti e asimmetrie sociali, crea guerra. Noi abbiamo iniziato a progettare prodotti che nascono da materie «ultime» anziché da materie prime, ripensando il design nel suo aspetto ambientale, tecnico e sociale.
I biotessili disinquinanti edizero, che sottraggono inquinanti dal mare e dal suolo e per questo premiati con il compasso d’oro dall’ADI - Associazione del Design Industriale, sono stati scelti tra le eccellenze sostenibili del design italiano per accogliere capi di Stato e di Governo al G20 dello scorso 30 e 31 ottobre.
È stato un bel segnale da parte del Consiglio dei Ministri commissionare alla Fondazione Compasso d’oro il percorso «Italian Design: Innovation, Creativity, Responsability» con i migliori 40 prodotti del Made in Italy negli spazi del Convention Center - La Nuvola. Tra questi i biotessili salvapianeta edizero, rappresentativi dei tre temi chiave del Summit: people, planet, prosperity.
Una sostenibilità operosa lontana dalla retorica del greenwashing (ecologismo di facciata).
Con gli ultimi prodotti realizzati entriamo nel mondo della moda, della detergenza e del packaging. In un lungo processo di lavorazione il primo scarto diventa isolante termico acustico, il secondo scarto diventa biotessile disinquinante, il terzo scarto (lo scarto dello scarto dello scarto) diventa un estratto con virtù salutari per il settore detergenza. A quel punto davvero non restano più rifiuti, ma solo prodotti utili, sani, che finito di vivere diventeranno terra fertile.
Il sughero è un elemento identitario della Sardegna.
Il 90% delle foreste di sughero è nella nostra isola, le nostre querce sono un elemento identitario dei nostri paesaggi e noi abbiamo scelto di usarlo in modo inaspettato, dandogli più vite e più scopi. L’ingrediente è sardo, ma è servita l’intelligenza del mondo per arrivare a questo prodotto. Eccedenze locali ed eccellenze locali hanno costruito un nuovo immaginario.
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