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Nari Ward nel suo studio di Harlem con «Breathing Directions» (2015). © Axel Dupeux

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Nari Ward nel suo studio di Harlem con «Breathing Directions» (2015). © Axel Dupeux

Nari Ward in conversazione con il tempo

Al Pirelli HangarBicocca i trent’anni di carriera dell’artista newyorkese

Louisa Buck

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Nari Ward (1963), di origine giamaicana e residente a New York, è noto per le sue potenti installazioni create utilizzando umili materiali di scarto spesso raccolti nel suo quartiere di Harlem. Sia che Ward combini più di 300 passeggini con tubi antincendio appiattiti (l’installazione «Amazing Grace» del 1993) o che faccia rotolare una gigantesca palla fatta con le punte e i lacci delle scarpe su cartelloni pubblicitari in vinile (la scultura «Tumblehood» del 2015), le sue opere affrontano complesse realtà sociali e politiche che riguardano la razza, la migrazione, la democrazia e la comunità. Il compianto curatore Okwui Enwezor, che aveva incluso Ward nella sua Documenta11 del 2002, ha affermato che l’artista ha «trasformato completamente la scala e l’ambizione dell’arte installativa». Da una prima mostra nella sezione «Aperto» della Biennale di Venezia del 1993, Ward ha continuato a esporre in tutto il mondo, da Siena a Sharjah, con significative personali, tra gli altri, al New Museum di New York nel 2019 e alla Fondazione Trussardi di Milano nel 2022.

Dal 28 marzo al 28 luglio, «Gound Break», una sua nuova mostra al Pirelli HangarBicocca, a cura di Roberta Tenconi con Lucia Aspesi, si concentrerà sulle opere basate sull’idea di tempo che comprendono video, lavori sonori, sculture performative e installazioni.

Nari Ward, la sua mostra al Pirelli HangarBicocca abbraccia tre decenni e ha come tema la «performatività». Al centro vi sono tre grandi installazioni concepite tra il 1997 e il 2000 come set per la «Geography Trilogy» del coreografo-scrittore Ralph Lemon, che vengono presentate per la prima volta in un contesto museale. Perché è così importante questo incrocio con la performance?
Ralph si è sempre interessato a ciò che facevo in studio quindi non si è trattato di un rapporto convenzionale con la scenografia, ma di un ponte tra il mio studio e le sue idee. Con la parete di pallet («Geography Pallets», 2000-24), ad esempio, Ralph parlava di templi e di trasmissione di idee e devozione e io, in quel momento, pensavo al porto come a un non spazio di scambio e di merci che si muovevano. Era disposto a confrontarsi con queste idee ed è successo in un modo particolarmente bello, perché quando l’abbiamo appeso al muro, la combinazione di zucchero e plexiglas ha creato una finestra di vetro colorato. Ci sono sempre stati momenti come questo, in cui Ralph sapeva che cosa voleva, ma aveva bisogno di tradurlo attraverso me e la mia visione.

Oltre al suo lavoro con Ralph Lemon, lei ha realizzato anche performance e ha collaborato con altri artisti. Di recente sui suoi pavimenti in mattoni di rame si è avvalso di ballerini.
Fin dall’inizio il mio desiderio in quanto artista è stato di provare a confrontarmi con due materiali: il materiale dello spazio e il materiale del tempo. Per quanto riguarda lo spazio, la strategia consisteva nel trovare un oggetto funzionale o di scarto per poi ricavarne un numero sufficiente di pezzi in modo che potessero occupare lo spazio e creare un altro tipo di presenza complessiva per il corpo dello spettatore. Per quanto riguarda l’idea del tempo, si trattava di «storia». Trovavo oggetti che in passato avevano avuto insito in loro una sorta di marcatore del tempo. Mi attraeva il fatto che avessero subito un processo che aveva innescato una sorta di storia imprevista in termini temporali. Così ho sempre pensato a come portare questa conversazione bidirezionale in uno spazio.
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Il modo in cui lei assembla e riconfigura gli oggetti sembra richiamare, ad esempio, i ready-made di Duchamp o i «Combines» di Rauschenberg. C’è poi l’aspetto storico e politico del lavoro con oggetti che vanno dalle mazze da baseball ai passeggini. Perché questi oggetti non sono solo recuperati, ma anche faticosamente lavorati, spesso incorporando sostanze cariche di storia come zucchero, olio e cotone?
Penso che tutti noi siamo narratori, anche Duchamp è un narratore. È stato questo a guidarmi e a indurmi a diventare un artista di oggetti trovati. Come artista sono il risultato di ciò che avveniva ad Harlem negli anni Novanta: c’erano l’Aids, i bianchi che fuggivano dai centri urbani, molta povertà e il crack, che ha letteralmente spazzato via questi quartieri. Poi sono arrivati i Governi che hanno iniziato a elargire sovvenzioni alle imprese per ricostruire i quartieri. Mentre accadeva tutto questo, io andavo nel mio studio e, poiché stavo frequentando un corso di laurea in disegno, cercavo di tracciare segni sulla carta. Ma mi sentivo frustrato e allora ho pensato che dovevo provare a raccontare ciò che stava accadendo davvero in quel momento nel mio quartiere.

Perché usare gli oggetti per raccontare queste storie?
Il dialogo con questi oggetti era importante. Non che fossero nella spazzatura, non li ho mai raccolti sul marciapiede, ma erano in campi abbandonati. È stato il senso di desolazione di questi oggetti che avevano fatto parte della vita di qualcuno, della sua routine a ispirarmi e a farmi capire come raccontare una storia che non fosse solo la mia. Si è trattato sempre di prendere il dato personale e capire come sedurre materialmente lo spettatore. Ho usato anche zucchero e oggetti personali altrui, in modo da provare a inserire quelle esperienze nel dialogo.

Lei ha avuto un’educazione battista e per molti versi nel suo lavoro sono presenti la religione e il senso di spiritualità. Anche se questi riferimenti non sono palesi, nei suoi lavori c’è un’atmosfera rituale.
Si tratta di una conversazione con il tempo. Ricordo che il mio mentore, il pittore William T. Williams, mi fece osservare delle figure devozionali africane, non solo la loro forma, ma anche la loro superficie, perché su molte di esse venivano versate delle libagioni. Questo creava una sorta di mistero che le astraeva dal momento presente e in un dialogo cerimoniale con il tempo che aveva un suo ritmo. Così, quando, per esempio, rivestivo di zucchero o di bitume gli oggetti che trovavo per strada, pensavo al rito della libagione e a come il potere misterioso di una cerimonia inconoscibile possa essere sfruttato per scatenare l’immaginazione dello spettatore, per far sì che questa cosa diventi più di quello che normalmente percepisce e per creare una sorta di ipermaterialità.

Louisa Buck, 25 marzo 2024 | © Riproduzione riservata

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