«Durante l’ultima settimana del novembre 1970 un’aria di festa ha invaso Milano. L’intervento diretto degli artisti alla celebrazione del decimo anniversario del Nouveau Réalisme si è tradotto in una serie di situazioni bizzarre, belle, folli, sconcertanti per il pubblico; eppure al tempo stesso stimolanti per l’uomo di strada, l’intellettuale da salotto e l’autista di taxi». Quell’evento descritto da Pierre Restany segnò per il capoluogo lombardo l’ingresso nel nuovo decennio. Tra le varie performance previste durante le celebrazioni del movimento francese (era una sorta di rituale catartico) destò scalpore l’azione di Niki de Saint Phalle in Galleria Vittorio Emanuele che con mantello e carabina sparava su sacchi di vernice colorata facendo esplodere il colore. Del resto, violenza e creatività hanno segnato la Milano di quegli anni martoriata dal terrorismo.
Metropoli in divenire, versatile e complessa, il capoluogo lombardo era un centro internazionale tra i più fervidi dove sono approdati artisti europei e americani, da Urs Lüthi ad Allan Kaprow, da Gordon Matta-Clark a Michael Asher. Quest’ultimo nel 1973 fece un intervento radicale alla Galleria Toselli scrostando dalle pareti lo strato di pittura bianca servendosi di una sabbiatrice, sino a quando non fece comparire le tracce delle alterazioni subite dall’edificio. Lo spazio espositivo come media artistico, quasi fosse l’estensione dell’architettura cittadina, era uno dei principi che guidava l’azione dello scultore americano allora in gran voga. A dargli carta bianca era stato Franco Toselli, una delle personalità più significative di quegli anni di cambiamento dove il desiderio diffuso era quello di rompere con il passato ed esplorare nuovi territori.
Nel medesimo periodo il giovane gallerista esponeva anche i pastelli di Salvo, cacciato da Torino per la sua lontananza dall’Arte povera e sempre nel 1973 fece acquistare al notaio Paolo Consolandi la prima mappa di Alighiero Boetti posizionandola sul suo letto. Consolandi era l’emblema di una classe formata da industriali (il più noto era Leopoldo Pirelli) e professionisti che aveva scelto di puntare sull’arte come strumento d’innovazione culturale, ancor prima che come investimento. «C’era il gusto e l’orgoglio della scoperta e anche dell’azzardo», ricordava Giorgio Marconi, che a Milano aveva fondato la sua galleria nel 1965 e rappresentava già il salotto buono della città, tanto che nel solo 1973 aveva inanellato le mostre di Gianni Colombo, Christo, Joseph Beuys, Louise Nevelson, Giuseppe Uncini e Giulio Paolini. È nei Settanta che è cresciuto il grande collezionismo italiano guidato da Giuseppe Panza di Biumo, anticipatore di mode e tendenze; sin dal 1974 Tommaso Trini parlava della sua raccolta di opere pop, minimali e concettuali come di un tesoro conteso che avrebbe dovuto trovare posto a Palazzo Citterio, evocato come sede del museo d’arte moderna. Da allora sono passati cinquant’anni e nel 2024, dopo infinite lungaggini burocratiche, l’edificio settecentesco ospiterà finalmente la Grande Brera.
Insieme a Panza, la platea dei collezionisti si era allargata e le gallerie milanesi costituivano un punto di riferimento per Luigi e Peppino Agrati (ora le loro opere fanno parte del patrimonio di Intesa Sanpaolo) e Riccardo Tettamanti. Ma anche per Tullio Leggeri, Emilio e Luisa Marinoni oltre che per Giorgio Fasol. Quest’ultimo non amava certo la mondanità e insieme alla moglie Anna prendeva il treno da Verona, sabato intorno alle 13, sbarcava alla Stazione Centrale e faceva ritorno nella città di Giulietta in serata: «La visita alle gallerie milanesi era un rito immancabile, afferma Fasol. C’era una straordinaria energia e un gran numero di novità. Al contrario di quanto accade oggi, si parlava assai più di arte che di quotazioni». I prezzi tuttavia, almeno sino alla crisi petrolifera del 1974, erano tutt’altro che bassi e per i tagli di Fontana la richiesta era di 3 milioni, il valore di un piccolo appartamento. Agnetti e Manzoni costavano un milione, mentre Castellani e Isgrò si potevano acquistare intorno alle 200mila lire.
Nella città che si apriva al nuovo mercato l’arte poteva diventare anche uno status symbol democratico a disposizione di una vasta platea. E così si sviluppò la grafica di cui Marconi fu tra i maggiori divulgatori. In un’intervista con Natalia Aspesi, rammentava divertito come aveva inventato «la serigrafia formato divano» con l’idea che ci fosse in ogni soggiorno almeno un foglio in tiratura. Sul fronte editoriale nacque nel 1970 «BolaffiArte», diretta da Umberto Allemandi, diventata immediatamente popolare anche per il fatto che ogni numero della rivista includeva l’opera grafica originale di un artista contemporaneo.
In una Milano in grado di proporre prodotti per ogni fascia di pubblico, all’inizio dei Settanta le gallerie erano ben oltre cento e almeno venti «vessillifere di cultura», come ha scritto Adriano Altamira.
Accanto ad alcuni spazi già ampiamente consolidati che operavano sin dalla metà degli anni Cinquanta come la Galleria dell’Ariete di Beatrice Monti, Apollinaire di Guido Le Noci, la Blu di Peppino Palazzoli, la galleria di Arturo Schwarz (attiva sino al 1975), nel decennio che ha seguito la rivoluzione studentesca è apparsa evidente la propensione verso la sperimentazione contemporanea, come dimostra l’attività della galleria di Salvatore Ala, che prima di trasferirsi a New York ha aperto la sua sede milanese nel 1974, proponendo una serie di lavori performativi di artisti e compositori quali Laurie Anderson, Meredith Monk, Charlemagne Palestine, Simone Forti. Sempre nel 1974 Il Diagramma di Luciano Inga Pin, una delle prime gallerie a interessarsi esclusivamente della Body art, presentava per la prima volta Marina Abramović con la performance «Rhythm 4», dove l’artista s’inginocchiava nuda davanti a un grosso ventilatore industriale con lo scopo di incamerare più aria possibile nei polmoni sino a sfiorare il collasso.
Insieme alla Galleria Milano di Carla Pellegrini, dov’è stato proposto tra l’altro l’Azionismo viennese e il Gruppo Gutai, oltre a Enzo Mari e Gianfranco Baruchello, da Parigi si era trasferita a Milano Françoise Lambert, che dopo la Pop art aveva deciso di dedicarsi a Gilbert & George, Daniel Buren, Dennis Oppenheim, Niele Toroni e Jan Dibbets. E tra le novità non va dimenticata la galleria Multhipla di Gino Di Maggio che fece conoscere in Italia la ricerca di Fluxus.
Fu un periodo effervescente per Milano che aveva verificato («Verifiche» è la serie di esperimenti fotografici realizzati da Ugo Mulas tra il 1970 e il 1972) la propria statura europea. In ambito pubblico, va detto che sebbene fossero pochi i luoghi istituzionali (Palazzo Reale, Rotonda della Besana e Padiglione d’Arte Contemporanea riaperto solo nel 1979), anche l’amministrazione comunale aveva fatto la sua parte costituendo, attraverso un’illuminata politica di acquisizioni, il patrimonio delle raccolte civiche attualmente esposto al Museo del Novecento.
Una città insomma assai meno glamour di oggi che sapeva guardare lontano.
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