Dalla fine dello scorso maggio Gianfranco Maraniello (Napoli, 1971) è il direttore dell’Area Musei d’Arte Moderna e Contemporanea di Milano, che comprende cinque istituzioni: il Museo del Novecento nell’Arengario, in piazza Duomo; la Gam-Galleria d’Arte Moderna; Palazzo Morando (finora sottotitolato Costume|Moda|Immagine); la Casa Museo Boschi Di Stefano e lo Studio Museo Francesco Messina. Non pochi; ma in più, al suo arrivo, Maraniello ha trovato ad attenderlo alcuni dossier pressanti, primo fra tutti il progetto del raddoppio del Museo del Novecento, che Anna Maria Montaldo, che l’ha preceduto, aveva potuto appena avviare. Non gli manca l’esperienza (dal 2005 al 2015 ha diretto il MAMBo di Bologna, dal 2015 al 2020 il Mart di Trento e Rovereto, e dal 2015 al 2022 è stato presidente di Amaci, l’Associazione dei Musei d’arte contemporanea italiani), ma le sfide sono impegnative e urgenti. Ne parliamo con lui.
Direttore, da dove partiamo?
Dall’idea di fondo, direi: ciò che sto cercando di disegnare, con l’Amministrazione, è una mappa organica cui concorrano tutti i musei dell’Area, individuando l’eredità storica e l’identità percepita e percepibile di ognuno, e identificandone i margini di sviluppo. Appena arrivato, tuttavia, mi sono dovuto occupare delle questioni più urgenti, la più macroscopica delle quali è l’espansione del Museo del Novecento, che prevede addirittura l’annessione di un nuovo edificio (il secondo Arengario, detto «+100») e che coinvolge il cuore stesso della città, con le sue valenze urbanistiche e paesaggistiche. E non sto qui parlando della dibattuta passerella aerea, che non è certo il maggiore dei problemi, rispetto al disegno complessivo di gallerie espositive e servizi. Occorreva anche affrontare il trasferimento di un’opera icona come il «Quarto Stato» di Pellizza da Volpedo dal Museo del Novecento alla Gam, e accogliere la Collezione Mattioli. Bisognava dare interpretazione, evidenza e forma a questi progetti. E prima ancora inquadrarli in una visione non episodica, con un orizzonte medio lungo, in una città come Milano che sta vivendo un momento di euforia straordinaria e di grandissima generosità: penso a una figura come Giuseppina Antognini, che ha donato senza nulla chiedere, ma molta disponibilità sto riscontrando, per il futuro, anche in altri collezionisti.
La Galleria del Futurismo, ridisegnata per la Collezione Mattioli, è un segnale di ciò che sarà il percorso del Museo del Novecento?
Sì, con Italo Rota, che ha progettato il museo, abbiamo scelto nuovi colori (diverse tonalità di grigio) e realizzato una nuova illuminazione: una luce diffusa, priva di aloni, che non interferisce con le opere. Quando, nel 2024, tutte le gare già predisposte andranno a compimento, il «mosaico» cui ora si sta lavorando, si comporrà in una figura complessiva. E già da settembre la rampa elicoidale cambierà volto poiché, grazie a un accordo con l’Archivio Ugo Mulas, realizzeremo il progetto immaginato dall’artista di un «archivio per Milano». Sul fondo grigio, ideale per la sua fotografia, il percorso di ascesa porterà la testimonianza del suo sguardo sulla città e sugli artisti: tra gli altri, si vedrà Christo che impacchetta il monumento a Vittorio Emanuele II di piazza Duomo e, salendo, si vedrà proprio quel monumento attraverso le vetrate.
Come scandirete le collezioni, con il «secondo Arengario»?
L’Arengario sarà sempre più un museo di collezione permanente, com’è già ora, ma con una revisione di spazi e momenti, un’integrazione di opere, e una nuova grammatica espositiva: andrà dal Futurismo fino ai primi anni ’80. L’edificio, con i suoi volumi adatti a oggetti con uno spazio di pertinenza proprio, cioè dipinti e sculture, favorisce infatti un modello espositivo da pinacoteca. Questa realtà inizierà a trasgredirsi nello spazio ex Cimac, dove entrerà in gioco la dimensione installativa che sarà ancor più evidente nel «secondo Arengario», dove entreranno il fine millennio e il nuovo secolo. Qui non ci sarà una collezione permanente.
Nessuna collezione? Perché?
Intanto, il tempo storico è ancora molto vicino e parecchi artisti sono viventi, hanno ricerche in corso. Inoltre, stiamo parlando di un’arte non più soltanto italiana ma, dalla fine del millennio, mondiale. Si tratterà quindi di un’espansione non solo cronologica ma anche spaziale, per documentare una situazione ancora in corso in definizione. È una scelta di metodo: sebbene abbiamo pezzi importanti (pensiamo solo alla collezione Acacia, che continua ad arricchirsi, e al potenziale di Milano di cui dicevo), ci saranno mostre a rotazione con una vocazione verso la contemporaneità. Marcata anche sul piano architettonico.
In che modo?
Lo Studio Calzoni, vincitore del concorso per il «secondo Arengario», mi ha molto aiutato a perfezionare il progetto, che avevo ben chiaro in mente, di spazi privi di scale, pilastri, colonne. Saranno tre (altissimi) livelli di circa 500 metri quadrati ciascuno, cui si accederà da un corpo contiguo, pensati per quell’arte che non è «contenuta» nello spazio ma che lo «determina»: installazioni, film, video, performance. La grammatica della contemporaneità. Il progetto definitivo è già stato approvato nei tempi previsti, ora si sta dettagliando l’esecutivo. E già da marzo il cantiere potrà essere osservato dal nuovo spazio che stiamo realizzando al piano terra dell’Arengario, il Forum ’900, un luogo per sostare (su sedute di design) e per tenere incontri e conversazioni.
Che cosa ci può dire degli altri musei?
Per tutti occorre pensare a una logica identitaria: per la Gam la scelta dell’800 è fondamentale. Il che non esclude incursioni del contemporaneo, sempre attinenti, però, al luogo. Aver esposto qui, ragionandone con l’autore che l’ha donata al Museo del Novecento, «Lullaby», l’opera realizzata da Maurizio Cattelan con le macerie del Pac distrutto dall’attentato mafioso del 1993, connette il suo senso di disillusione, da «fine della storia», con l’ottimismo progressista del «Quarto Stato», esposto proprio a fianco. E, nel trentennale dell’attentato, la maceria troverà il suo riscatto grazie all’aura conferitagli dal museo. Palazzo Morando sarà da rivedere riflettendo sulla sua eredità storica, ma con un’interpretazione contemporanea, anche visionaria: è però prematuro parlarne. Quanto alla Casa museo Boschi Di Stefano, è un gioiello da valorizzare, rimarcandone la dimensione abitativa e ripensando anche gli altri spazi dell’edificio. Per lo Studio Museo Francesco Messina, ora in ristrutturazione, vorrei puntare sulla sua dimensione di laboratorio. Vi sono già interlocuzioni con un’importante istituzione cui Messina fu legato, ma anche di questo è prematuro parlare. Per tutti penso a un futuro in cui entrino maggiormente nell’immaginario della città.
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