La personale di Luisa Rabbia (Pinerolo, To, 1970) «The Gods», che Giorgio Persano presenta fino al 19 ottobre nel giardino interno di Palazzo Scaglia di Verrua a Torino, e la mostra «The Beginning», che dal 28 settembre al 17 novembre, nello Studio Museo Felice Casorati a Pavarolo (To), mette in dialogo la produzione dell’artista (dal 2000 vive e lavora a New York) con le opere di Huma Bhabha, Ross Bleckner, Gianni Caravaggio, Enrico David, Mario Diacono, Jason Dodge, Scott Grodesky, Jannis Kounellis, Piero Manzoni, Claudio Parmiggiani e Beatrice Pediconi, sono l’occasione per un incontro.
La sua personale alla galleria Giorgio Persano è un racconto che, nella pittura della serie «The Gods», rilegge trent’anni di lavoro, in un linguaggio in cui si fondono il disegno, l’animazione video, l’installazione e la scultura, la performance, così come i materiali diversi che ha esplorato, dalla ceramica alla cartapesta.
È tutto dentro alla mia pittura di oggi. Soprattutto le forme si riallacciano ai miei lavori passati. Uno dei miei primissimi lavori, presentato nella galleria torinese di Filippo Fossati nel 1992, era un’installazione formata da 110 lune incise nello zinco, mattonelle quadrate disposte a formare un muro. Ognuna aveva una luna disegnata, con porzioni di superficie protette: quando le immergevo nell’acqua con l’acido, c’era una parte di disegno controllata da me e un’altra no. Ora nei miei dipinti questi pianeti sono diventati i volti degli dèi, dei miei «gods», mentre i loro corpi rimandano a forme che nel tempo ho utilizzato per suggerire uteri, alambicchi, volte celesti, o entità uniche formate da lingam e yoni. All’interno di «The Gods» questi significati si sono intrecciati con il mio linguaggio presente, creando una serie di micro e macrocosmi.
La sua è una pittura pura e potente, che si compone di grandi tele a olio e di piccole tele incartonate a china e acquarello, lavori complessi dalle lunghe stesure stratificate.
La pittura a olio mi permette di lavorare sia con la stratificazione sia con la sottrazione, che avviene con cartavetro e a volte con pennini metallici, gli stessi che uso per disegnare a china su lavori piccoli. C’è un collezionare tracce, i miei momenti di vita, perché ogni opera nasce attraverso un lungo arco di tempo, con un approccio istintivo che significa riflettere su uno stesso tema con umori e sguardi, con angolazioni diverse. Molti anni fa, nella autobiografia di Arturo Martini, avevo letto che quando realizzava le sue sculture la cosa importante era non guardarle dritte negli occhi ma in obliquo. E questa cosa di guardare l’opera in obliquo cambia tutto, perché le permette di svilupparsi da sola senza sentirsi esposta.
Il colore è centrale ed è spesso una fluorescenza, mentre le forme sembrano mobili, in metamorfosi continua, così come i piani che slittano.
La mostra in corso nella Galleria Persano si ispira alle Metamorfosi di Ovidio, un tema che per me rappresenta la possibilità di fondere insieme mondi diversi, prima di tutto quello umano e quello vegetale e poi la dimensione organica e quella spirituale, la condizione individuale e quella collettiva. Negli Appunti per il prossimo millennio Italo Calvino scriveva che secondo Ovidio la conoscenza del mondo è la dissoluzione della sua compattezza e che nella sua opera c’è una parità essenziale fra tutto ciò che esiste, contro ogni gerarchia di poteri e di valori. Calvino è stata la mia anima guida nella ricerca per rappresentare le situazioni sociali, che vanno dal personale al collettivo, perché il personale è sociale, e noi donne lo sappiamo bene.
Le tele piccole compongono una sorta di diario quotidiano, dove riflette su eventi e notizie che le arrivano dal mondo esterno.
Sono molto toccata dagli eventi esterni, sento un forte senso del sociale, e mi interessa che il mio lavoro si rivolga al presente e possa fare riflettere non riferendosi solo a sé stesso, chiuso in una bolla. La mia reazione alle notizie, a certi soggetti in particolare, è emotiva, e il mio lavoro sulla tela è un modo per rifletterci, dove sono presente io, con i miei segni ed emozioni che diventano una texture di segni dall’impatto espressionista. Non lavoro in maniera diretta e didascalica riproducendo le notizie come le ricevo, una modalità, invece, oggigiorno frequente negli Stati Uniti, dove la politica spesso viene tradotta in arte in maniera piuttosto diretta e letterale. Preferisco un approccio con più respiro, «obliquo» per l’appunto, con una risposta emotiva al presente che si intreccia anche con opere letterarie. A Torino mi sono formata nel contesto dell’Arte povera, dove le tematiche sociali e politiche venivano liricizzate con letture trasformative e metaforiche.
Proprio tra le tematiche politiche e sociali a lei care da sempre ci sono gli homeless, i migranti e i rifugiati, a cui ha dedicato cicli storici.
Mi sono domandata come mai, a volte, parlo di esperienze che non ho vissuto personalmente. Sono situazioni di vita che temo e sono consapevole del fatto che nessuno di noi ne è così distante. Le mie sono riflessioni su eventi al di fuori del nostro controllo, ed è proprio qui che entrano in scena gli dèi, che nella storia hanno sempre rappresentato figure create dall’umanità come immagini di supporto, e per me rappresentano il cosmo e ciò che non conosciamo. Siamo vittime delle nostre scelte personali ma anche di un sistema più grande, via via fino ad arrivare all’ignoto. Per questo i miei «gods» contengono tutte queste energie e dinamiche, vissute in maniera diretta e no, ma molto spesso anche le nostre paure, le mie.
La mostra «The Beginning» a Pavarolo nasce da alcune sue opere presenti in importanti collezioni italiane, la Collezione Maramotti di Reggio Emilia e quella torinese di Francesca Lavazza.
Lo Studio Museo Felice Casorati porta avanti da tempo un progetto, «Gran Tour», che lavora su grandi collezioni italiane partendo dall’opera di un’artista, che in questo caso sono io. Abbiamo coinvolto le collezioni Maramotti e Lavazza perché ci prestassero ciascuna una mia opera (rispettivamente «NorthEastSouthWest» del 2014 e «Birth» del 2017, Ndr), da cui il curatore newyorkese David Dixon è partito per creare una conversazione con una serie di opere storiche e contemporanee internazionali presenti nella collezione Maramotti, legate dal tema dell’inizio. «The Beginning» evoca una dimensione cosmica e una riflessione sul concetto di origine, apparizione e direzione. Un inizio declinato variamente da Huma Bhabha, Ross Bleckner, Gianni Caravaggio, Mario Diacono, Jason Dodge, Scott Grodesky, Jannis Kounellis, Piero Manzoni, Claudio Parmiggiani e Beatrice Pediconi. Per esempio, c’è la nascita dell’essere umano e quella dell’universo, c’è la prima impronta digitale. È una mostra diffusa, che coinvolge tre spazi di Pavarolo: lo studio e la veranda della casa di Felice Casorati, e poi la torre campanaria, dove è presente un mio dipinto, anch’esso di grandi dimensioni come le opere da cui si origina la mostra.
Prossimi progetti?
Tengo molto a un progetto con Mario Diacono (artista, critico e storico gallerista dagli anni Settanta, Ndr), che a 94 anni ha deciso di riaprire una galleria a Boston, con un’operazione artistica di debutto a ottobre, e poi con una mia personale a novembre. Sempre a novembre la Peter Blum Gallery porterà il mio lavoro alla fiera Adaa al Park Armory di New York, in dialogo con l’artista afroamericana Joyce J. Scott. A ottobre ci sarà una collettiva presso la Collezione Maramotti e nella primavera del 2025 una collettiva al Lentos Art Museum di Linz, in Austria.