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L’innovazione non è un cambiamento qualsiasi

Invece di Soprintendenze nuove, una Soprintendenza super: un rimedio all’assenza di un ammodernamento non più rinviabile

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Daniele Manacorda

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Tutto è nato in maggio con la diffusione delle bozze del Decreto Semplificazioni e del Recovery Plan, meglio definito Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr): allarme dei tecnici delle cultura e della tutela paesaggistica per il richiesto «snellimento» delle procedure autorizzative relative ai lavori di costruzione di impianti per le energie rinnovabili, indicati tra i punti focali del Pnrr. Inevitabile il confronto tra Roberto Cingolani, il ministro della Transizione Ecologica, e il collega Dario Franceschini. Nuova Soprintendenza Unica Nazionale per le opere previste dal Pnrr, ruolo dell’archeologia preventiva, rispetto del Codice Urbani, interventi nei centri storici, tutela dei lavoratori coinvolti: sono molti i temi in campo. Decreti e Pnrr sono in via di definizione.

Nel momento in cui scrivo queste note ancora non sappiamo quale sarà il punto d’intesa che il Governo troverà sulle procedure di «semplificazione» che consentiranno di tenere fede agli impegni del Pnrr, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. La partita va ben oltre l’ambito del patrimonio culturale: tocca il Codice degli appalti, le procedure amministrative pronte a trasformarsi in burocratiche, il diritto del lavoro, il rapporto fra politica, amministrazione, imprenditoria e società (storicamente in bilico fra desiderio di collaborazione e reciproca diffidenza) e le sinergie tra i diversi comparti della Pubblica Amministrazione. Le tensioni sono comprensibili. È in gioco il futuro delle giovani generazioni.

La parte sana del Paese, ampiamente maggioritaria, ne è consapevole, sì che nessuno vorrà il ruolo di chi predica eccessiva cautela, ma neanche quella dell’ingenuo cultore del «laissez faire». Il fatto è che non basta dire «fate, fate» al mondo delle imprese: occorre anche che quegli obiettivi siano compatibili con il livello di efficienza e con le strutture mentali della Pubblica Amministrazione.

Quel monopolio statale non previsto in Costituzione
Per quanto riguarda il patrimonio culturale (del quale oggi come mai si comprende l’intima relazione con quello paesaggistico e ambientale) il ministro Dario Franceschini ha già detto chiaramente che sarà lui stesso a prendere il toro per le corna proponendo norme che riducano la farraginosità delle procedure autorizzative per coniugare velocità di esecuzione (e quindi raggiungimento degli obiettivi) e tutela di ciò che la Costituzione incarica la Repubblica nel suo insieme (non solo lo Stato!) di garantire.

Mi sembra una posizione ineccepibile ed equilibrata, che al momento sembra sostanziarsi nell’idea di costituire una Soprintendenza Unica Nazionale per le opere previste dal Pnrr che accorpi le diverse competenze oggi frammentate, tagli i tempi e si assuma le relative responsabilità. La prospettiva non è priva di senso: tutto dipende da chi sarà al vertice di questa struttura e nel suo staff operativo e saprà portarvi l’efficienza richiesta dall’urgenza dell’innovazione.

Qui il ministro non è autorizzato a dormire sonni tranquilli, tanto è vero che la nuova struttura dovrebbe aprirsi a esperti di «comprovata qualificazione professionale». E bene sarebbe se lo facesse, perché uno dei nodi del sistema è la secolare affermazione di autosufficienza muscolare della amministrazione statale della tutela, restia quanto mai ad aprirsi agli apporti di competenze esterne e a mettere in pacifica discussione le proprie scelte e i propri comportamenti (forte, va detto, di un Codice Urbani, giovane ma vecchissimo, che garantisce nella norma legislativa quel monopolio che la Costituzione non prevede).

Insomma, Franceschini sa che, per raggiungere la meta senza restare con il cerino in mano, può cambiare carrozza, ma in quella stalla i cavalli sono sempre gli stessi e mangiano sempre la stessa biada. Vaglielo a spiegare ai rappresentanti della cultura industrial-tecnologica che l’archeologia italiana ha capito da un pezzo di volersi collocare al servizio dell’innovazione e non dello status quo, che la direttiva «meno burocrazia, più efficienza» è il sogno che si porta appresso dal momento della formazione dei giovani a quello della gestione del patrimonio, passando per la ricerca, la tutela e la sua valorizzazione.

Vaglielo a spiegare che poi tutto si arena nelle prerogative monopolistiche di un «Superiore Ministero», che vuole fare tutto da solo, che ignora il concetto di «fare squadra», ma si lamenta di non avere i mezzi e il personale per farlo.

Il redde rationem del Pnrr
Il Ministero della Cultura (MiC) è arrivato impreparato al redde rationem del Pnrr. Deve correre ai ripari creando strutture nuove con il personale di sempre. Ma il Mibac, con o senza la T, in questi anni non era stato fermo. A Franceschini dobbiamo due riforme epocali, che gli hanno alienato la simpatia dei settori più conservatori del mondo dei beni culturali e hanno alimentato le speranze di chi, dall’esterno del Ministero, ne auspicava da tempo una rigenerazione.

La riforma dei musei ha dato dignità a istituti che languivano come uffici privi di una personalità e di una missione. La struttura più innovativa e, con tutti i suoi limiti, solida dell’impalcatura del MiC oggi sta lì (si tratta semmai di aumentarne ancora l’autonomia e le dotazioni). L’introduzione delle Soprintendenze uniche, oltre a esprimere una fortissima carica culturale per quanto concerne il concetto stesso di patrimonio, ha snellito l’accavallarsi di procedure tra Soprintendenze «consorelle» e recato un servizio al Paese.

Eppure l’idea di una temporanea (fino al 2026) Soprintendenza Nazionale per il Pnrr ci dice che quella riforma non ha generato il nuovo, ma ha semplicemente ritoccato il vecchio. Le Soprintendenze hanno vissuto luttuosamente la perdita dei loro uffici museali, ma non sono state messe in condizione di fare a tempo pieno il mestiere che viene loro richiesto di fare: conoscere analiticamente il territorio italiano per gestire l’uso dei suoli coprogettandolo con gli altri interlocutori pubblici e privati. La loro frammentazione su base poco più che provinciale ha tolto loro finanche la visione regionale (geografica, culturale, amministrativa) in cui operare e le mantiene cronicamente inadeguate dal punto di vista del personale, delle competenze tecniche, delle strutture di laboratorio.

Oberato di pratiche amministrative e di conferenze dei servizi alle quali non riesce a ottemperare, il personale ha bisogno di immediate nuove immissioni a copertura dei ruoli perduti, ma occorre favorire in tutti i modi anche le forme di collaborazione con il «Sistema Paese» (amministrazioni locali, università, enti di ricerca, professionisti, associazionismo culturale). Occorre una mobilitazione; occorre fare squadra. Dopo oltre cento anni siamo ancora drammaticamente indietro nella conoscenza capillare del territorio.

Antenne verso la società
Le due perle (autonomia dei musei, Soprintendenze uniche) non hanno ricevuto il filo che le collega. D’altronde non è un mistero che le riforme introdotte qualche anno fa non sono state portate a compimento con la determinazione con cui erano state avviate. La «spinta propulsiva» (come si diceva una volta) del primo dicastero Franceschini ha perso smalto e la macchina ministeriale (con le sue Direzioni generali organizzate a canne d’organo) ha ripreso il sopravvento con la sua inerzia progettuale e propensione alla gestione di uno status quo autoreferenziale.

Colpisce negativamente la mancanza di antenne verso la società da parte di un’Amministrazione scontenta di sé ma timorosa (o disinteressata) del mondo. In alcuni casi il MiC si è fatto addirittura baluardo della conservazione, come nella insana difesa della rendita parassitaria in tema di liberalizzazione delle immagini del patrimonio (in dissonanza non solo con un Parlamento ben più aperturista, ma con l’opinione pubblica e gli operatori culturali ed economici d’Italia, d’Europa e del mondo).

Mentre i ministri del MiC e del Mur (Università e Ricerca) firmano intese per far finalmente dialogare operativamente le proprie strutture e il proprio personale (un tempo parti dello stesso Ministero!), i vertici dell’Amministrazione producono mazzi di circolari tese a rendere impossibile all’Università svolgere la propria funzione formativa, innanzitutto, e di ricerca, con arroganti ingiunzioni che testimoniano una non più sopportabile concezione padronale del patrimonio, pari solo all’ignoranza dei temi su cui interviene.

Vizio autoreferenzialità
Da anni opera in Francia un efficiente istituto per l’archeologia preventiva (Inrap, Institut national des recherches archéologiques préventives) che rappresenta non un modello cui adeguarsi, ma un’esperienza fondamentale con la quale confrontarsi. Convinti come siamo di possedere il migliore sistema di tutela al mondo (e certo non sarò io a minimizzarne i risultati), abbiamo mai pensato di aprire un tavolo di confronto con i colleghi francesi (che peraltro si avvalgono di molti giovani italiani formati al meglio nelle nostre Università) per trarre ispirazione da quella esperienza? Il vizio dell’autoreferenzialità impedisce anche di cercare di migliorarsi.

Figuriamoci poi se il problema diventa quello di porsi al servizio della comunità, delle amministrazioni pubbliche come dell’associazionismo culturale, dietro lo scudo offerto da procedure in cui il controllore, dotato di potenti strumenti di interdizione nei confronti dei comportamenti altrui, controlla poi monopolisticamente se stesso al di fuori di ogni cultura della valutazione.

Le riforme non portate a compimento spesso producono un passo avanti e tre indietro. L’impressione di questi ultimi anni è che l’involuzione del MiC sia stata massiccia, con conseguente mortificazione di chi al suo interno pur rappresenta la voglia e la potenzialità di innovazione. Il risultato è che le inaccettabili banalizzazioni linguistiche verso il ruolo dei soprintendenti, esternate a suo tempo da Matteo Renzi sindaco di Firenze, hanno mantenuto tutta la loro accoglienza nel sentire comune. E se Antonio Decaro, sindaco di Bari nonché presidente dell’Anci, oggi torna a proporre con maggior garbo lo stesso problema («No ai burocrati della Cultura o noi sindaci abdichiamo», ha titolato «la Repubblica» del 22 maggio la sua lettera appello a Franceschini, Ndr), le cause di questa immagine che il MiC dà di sé sono da ricercare tutte al suo interno.

Non occorrono i miliardi del Pnrr per mettere il MiC in sintonia con il proprio Paese e dare la possibilità al suo personale (dirigenti, funzionari, tecnici...) di dare il meglio, come la maggior parte di loro vorrebbe fare. Alle sfide dell’innovazione si risponde con l’innovazione, non con i distinguo e il retropensiero che tanto, ancora una volta, il coltello dalla parte del manico ce l’avranno comunque i vertici amministrativi, che pensano di non dover rispondere di nulla a nessuno perché hanno letto (male) soltanto il comma 2 dell’articolo 9 della Costituzione, ignorando il dettato degli articoli 21, 33, 41 e 118, come se non li riguardasse.

La sfida si vince innovando
Per ricucire le strutture della tutela al sentire della parte migliore (e maggioritaria) dell’Italia occorre che il concetto di «fare squadra» con il Paese entri in quelle stanze dove oggi si consumano ingenti energie nei contenziosi tra strutture centrali e periferiche del Ministero stesso. L’innovazione non è un cambiamento qualsiasi. Non sta scritto da nessuna parte che il nuovo debba essere meglio del vecchio. Ma se del vecchio si conoscono i limiti ormai insostenibili, il cambiamento avrà mille armi in più per traghettare nel futuro il meglio dell’esperienza passata.

La sfida si vince innovando. L’occasione del Pnrr può aiutare a mettere in campo discontinuità di organizzazione, e di mentalità, epocali. Non posso pensare neppure per un momento che un ministro come Dario Franceschini tutto questo non lo sappia. È il momento di dare al sistema della tutela italiano le carte da giocarsi nel prossimo futuro. Ma la scelta è unicamente politica.

Daniele Manacorda, 12 giugno 2021 | © Riproduzione riservata

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