Il recente convegno di Icom su «Copyright e licenze libere per la cultura nel web» ha riacceso i fanali sulla selva dei diritti di riproduzione delle immagini dei beni culturali pubblici e riaperto il dibattito sul vigente limite del lucro, che ha resistito ai primi passi avanti compiuti dall’ArtBonus qualche anno fa. La distinzione lucro/non lucro nell’era di internet e del digitale ha impatti negativi innanzitutto sul sistema della ricerca e della diffusione della cultura, ma anche su tanti altri settori della società, altrettanto degni di partecipare dei benefici del libero riuso.
La questione, prima ancora che giuridica o economica, è dunque culturale e politica. Il limite del lucro è oggi imposto dal Codice dei Beni culturali (art. 108), ma le motivazioni per la sua abrogazione sono tante e corpose. Ne basterebbe una: l’esazione di diritti di riproduzione privilegia la rendita patrimoniale rispetto all’investimento produttivo. È quindi una disposizione arcaica, che rinuncia a creare lavoro e, di conseguenza, al reddito fiscale che ne deriva.
Lo Stato spende più di quanto introita: davvero non è paradossale sostenere che il tanto paventato danno erariale sia il vero prodotto generato da questa improvvida procedura. Altro che «socializzare le perdite e privatizzare i profitti», come qualcuno ancora sostiene!
L’uso dell’immagine è per definizione «non rivale», gode cioè dello straordinario vantaggio di garantirne l’uso contemporaneo a un numero infinito di utenti interessati: qualsiasi vincolo che lo mortifichi impedisce al digitale di manifestare tutte le sue potenzialità.
Il Codice Urbani non distingue tra beni materiali e immateriali, ma è a quest’ultima categoria che appartengono le immagini del patrimonio, che (come i versi di un poeta o le note di un musicista), se non più soggette al diritto d’autore, appartengono all’intera umanità. In barba a questo il Codice riconosce di fatto all’ente detentore del bene materiale una sorta di assurdo diritto d’autore perpetuo sulle sue immagini!
La Convenzione di Faro, finalmente ratificata, è una policy che d’ora in avanti deve ispirare le norme in materia e i relativi comportamenti della Pubblica Amministrazione, e va in direzione opposta allo spirito dell’articolo 108. Apre quindi vere praterie per i nostri istituti culturali, che più che «coltivare l’illusione di ricavare utili sulle immagini, dovrebbero puntare a essere il più possibile utili allo sviluppo complessivo della società» (Mirco Modolo) riaffermando le ragioni profonde della loro esistenza.
Le norme attuali costituiscono dunque una espropriazione dei diritti del cittadino di oggi e ancor più di quello di domani. Internet e il digitale hanno prodotto una società radicalmente diversa. Gli individui, da fruitori di contenuti culturali, sono sempre più creatori di nuovi contenuti. Parliamo dunque anche di libertà di espressione: un tema così costituzionalmente rilevante che alle argomentazioni di natura economica, giuridica, sociale più volte espresse dalla pubblica opinione non viene data né dalla politica né dai vertici dell’Amministrazione alcuna risposta puntuale, che entri nel merito.
Anche se qualcosa si è mosso in Parlamento nella discussione sulla direttiva comunitaria sul diritto d’autore, dove sono stati evidenziati almeno due obiettivi «minimi»: una maggiore discrezionalità per i direttori dei musei e parchi e l’affermazione della cosiddetta «libertà di panorama». Ma davvero, come facciamo a spiegare ai nostri figli che esistono norme in Italia che impediscono l’uso delle immagini di beni culturali pubblici esposti sulla pubblica via?
Qualcuno teme il rischio di una «svendita» del patrimonio ai monopolisti del web: ma se un’immagine verrà resa liberamente disponibile nessuno avrà interesse a rivenderla visto che tutti ne possono già godere. Nell’illusione di rincorrere Google o Facebook continueremo a sottrarre mille occasioni di crescita a una moltitudine di piccole realtà imprenditoriali mortificando una leva importante per ridare slancio, nel post Covid-19, alla creatività, all’editoria, al turismo, alla valorizzazione del nostro patrimonio culturale.
Come si vede, parliamo di semplice buon senso. Il paradosso che investe il rapporto fra economia e cultura vuole questi due mondi separati, secondo un pensiero che contrappone il valore simbolico dell’oggetto artistico o storico al suo valore economico e paventa le cosiddette mercificazioni, che divengono invece cosa buona se praticate dalla mano pubblica. Ma in tal modo lo Stato non solo si fa mercificatore, ma anche concorrente improprio dei giganti del web. E orientando il suo atteggiamento in funzione di quegli interlocutori, perde di vista la società nel suo insieme, i cittadini d’Italia e del mondo. Il diritto agli usi commerciali non è un sogno liberista o una rivendicazione di qualche corporazione, ma una legittima aspirazione sociale, che toglie dal mercato quello che merce non può essere, come i versi di Dante e le note di Verdi.
Lo Stato, anche attraverso le ultime riforme, si è aperto a una visione più attuale riconoscendo il grande ruolo anche economico del patrimonio culturale. Eppure, su questo tema la politica non sembra avere una sua visione, e quasi si accoda all’Amministrazione, che a sua volta attende un cenno dalla politica. Adottando una visione più aperta l’Amministrazione avrebbe con sé la grande maggioranza della società civile con le sue associazioni, le sue professioni, i suoi istituti e i suoi abitanti.
Per questo motivo dobbiamo tenere aperto il dialogo e liberare le energie di rinnovamento che pur esistono nell’Amministrazione pubblica di ogni livello, statale, regionale e locale. Quell’espressione «su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività culturali» che si legge nella didascalia delle immagini pubblicate in libri o riviste può avere il sapore antico di un omaggio al sovrano, ma non è che il fossile, purtroppo odioso, di una concezione del patrimonio pubblico che fa a pugni con lo spirito delle democrazie occidentali e che un nuovo istituto come la Digital Library potrebbe finalmente cancellare nel plauso generale.
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