«Artemisia Gentileschi a Napoli», nelle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo, curata da Antonio Ernesto Denunzio e Giuseppe Porzio e organizzata con la National Gallery di Londra, presenta circa cinquanta opere da raccolte italiane e internazionali, offrendo un aggiornamento scientifico sul periodo napoletano della «pittora», eroina femminista ante litteram per la vicenda della violenza subita da Agostino Tassi.
Il suo soggiorno napoletano iniziato nel 1630, anno de «L’Annunciazione» (Museo di Capodimonte) e del «San Gennaro» nell’anfiteatro per la Cattedrale di Pozzuoli su commissione vicereale, dura fino al 1654 (con due anni a Londra nel 1638-40) e segna il capitolo più esteso nella sua attività di pittrice. Figlia
ed erede «del più maraviglioso sarto e tessitore che mai abbia lavorato fra i pittori», come Roberto Longhi definì Orazio Gentileschi , è un’interprete originale di iconografie con mezze figure femminili in sembianze di sante martiri (filone molto apprezzato dal collezionismo privato) in cui è evidente l’intenzione autobiografica.
Artemisia incarna un simbolo di fierezza e ribellione, declinato anche dalla capigliatura ribelle come nella stampa di Jérôme David, tratta da un perduto autoritratto. La rassegna si apre con la «Santa Caterina d’Alessandria» dove l’artista si raffigura nelle vesti della martire egiziana. L’autoritratto delle
Gallerie Barberini Corsini conclama la piena integrazione dell’artista nella società colta del tempo dopo l’ammissione nel 1616 all’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze. La sua figura incombe in molte delle protagoniste ispirate all’immaginario classico e giudaico-cristiano che incarnano,
come nel caso di Giuditta, il modello della donna forte e coraggiosa.
Tra le novità della mostra «Giuditta e l’ancella con la testa di Oloferne», opera firmata acquistata dal Nasjonalmuseet di Oslo nel 2022 e nota finora solo attraverso foto d’archivio. A confronto il «Sansone e Dalila» della Collezione Intesa Sanpaolo, con cui gli studi l’hanno messa in collegamento non sempre con giudizi pertinenti. Narra la stessa vicenda «Giuditta e la fantesca Abra con la testa recisa di Oloferne» del Museo di Capodimonte, tela appartenuta ai Farnese, in cui Artemisia realizza la scena dell’efferata uccisione del generale assiro in maniera originale: prevale il sentimento di turbamento di Giuditta, che nel timore di essere osservata si schernisce dalla luce della candela per scrutare fuori della stanza.
Fulcro della mostra la parziale ricomposizione del ciclo di tele con Cristo e i dodici apostoli commissionato a Roma per la Certosa di Siviglia da Fernando Afán de Ribera III duca d’Alcalá (dal 1629 viceré di Napoli), ciclo che aveva al centro l’effigie di Gesù benedicente i fanciulli, realizzato da Artemisia nel 1626.
Il percorso pone inoltre raffronti con opere coeve di Massimo Stanzione, Paolo Finoglio, Francesco Guarino, Andrea Vaccaro e con la pittrice Annella Di
Rosa, secondo tradizione anche lei vittima di violenza. Ricerche d’archivio hanno fatto riemergere le circostanze dell’arrivo di Artemisia da Venezia a Napoli nel 1630 e un documento sulle nozze tra la figlia di Artemisia, Prudenzia Palmira, e Antonio Di Napoli, formalizzate nel 1649 nella Chiesa di Santa Maria di Ognibene.