«Il Chiot Rosa sembra portare nella sua quiete una storia invisibile, fatta di rifugio e lotta, contrasti e contraddizioni che risiedono nell’evoluzione del nostro Paese e nelle sue difficoltà. Non ho potuto fare a meno di pensare che qui ci si è riuniti e si è lottato, si è trovato riparo così come morte». Giulia Cenci. Nella tradizione contadina piemontese ricorre la figura della masca, raccontata anche da Nuto Revelli nei suoi libri, come Il mondo dei vinti e L’anello forte. Durante le veglie nelle stalle, i contadini si scambiavano racconti spaventosi che intrecciavano superstizione e religione, dando vita a figure malvagie, che sapevano leggere (!) che «lavoravano di fisica e distribuivano il malocchio», che potevano trasformarsi in animale. «Si raccontava che tale donna del paese era una masca, e si trasformava in gatto, in cane: “Abbiamo buttato dell’acqua bollente su un gatto, e il giorno dopo quella tale era a letto ustionata”. A certe donne del paese non bisognava far vedere un bambino appena nato, perché quelle certe donne portavano il malocchio, erano masche. C’era chi giurava di aver incontrato di notte della gente vestita di bianco, delle masche. Allora in quel punto, lungo quella strada, piantavano subito una croce o costruivano un pilone. ‘L Pilun ‘dla Munia era un posto di masche. Quando la scrofa non allattava i maialetti bisognava farla benedire. Ma occorrevano tre benedizioni, contemporanee e in tre parrocchie diverse. Anche quando i bigat non salivano ‘sle s-ciondrütte, non si arrampicavano lungo l’erica, occorrevano le tre benedizioni. Gli zingari godevano la stessa cattiva fama delle masche. Se non si faceva la carità agli zingari succedeva una disgrazia in casa. Io non ne ho mai viste delle masche. Ma quella paura, quell’affanno, li portavo dentro di me. Una notte mi sono sentito portare via la calotta da in testa, e subito ho pensato alle masche: la calotta era rimasta impigliata in un ramo. Un’altra notte, al chiar di luna, ho visto i cespugli che muovevano, e la paura mi ha preso: poi ho sentito a fare beh beh, era un gregge di pecore». (Nuto Revelli, Il mondo dei vinti, (1977) Einaudi, Torino 2016, pp. 57-58)
Le persone che venivano identificate come masche erano in realtà figure ai margini della società: la loro diversità e la loro difficoltà a integrarsi le rendevano oggetto di vessazioni e persecuzioni. Al tempo stesso, le masche erano anche lo strumento per dare forma a paure e fenomeni inspiegabili, e per questo incutevano timore nella popolazione. L’opera che Giulia Cenci ha realizzato per la radura del Chiot Rosa omaggia le masche e tutte le persone emarginate per la loro diversità, immaginando un luogo in cui diversi racconti e stratificazioni diano forma a un futuro di possibilità. Partendo da calchi delle betulle del Chiot Rosa, Cenci li ha combinati con elementi tipici del proprio linguaggio scultoreo, come teste di lupo, teste di manichini e rami di vite. Le sculture in alluminio derivate da questa unione sono degli ibridi a metà tra alberi e fiori, tra esseri umani e animali. Cresciute durante la notte o ferme a testimoniare i fatti di questo luogo, le figure si allungano tra le betulle e sembrano osservare con curiosità e stupore l’attività ai loro piedi, dove prendono forma piccoli spazi di riparo e aggregazione. Durante la fase di ricerca l’artista ha osservato e disegnato elementi vegetali nella fase di crescita e fioritura, come l’iris, il cui stelo si piega per il peso del proprio frutto, per poi ripiantarsi e propagarsi nel terreno circostante: un movimento che porta alla morte della prima pianta, ma rende possibile la nascita e la proliferazione di molte altre. Allo stesso modo, le sculture di Giulia Cenci per il Chiot Rosa sono frutto di secoli di storie e di Storia che hanno influenzato questo luogo, ma sono anche creature aliene, che presagiscono un futuro di incertezza e di metamorfosi. L’artista ha immaginato la radura ospitare questi fusti, fioriti o in procinto di decadere, diventare un nuovo habitat e contribuire a un paesaggio in continuo mutamento. La ricerca di Giulia Cenci si incentra sulle relazioni tra essere umano, animali e ambiente. Per realizzare le sue opere adotta materiali di riciclo, come gli scarti del sistema di produzione agricola o i rottami delle automobili, o anche frammenti di prototipi animali e umani, che assembla e fonde in sculture complesse in cui convivono manualità e produzione seriale. Per il suo interesse verso i luoghi al confine tra natura e antropizzazione ho invitato Giulia Cenci a pensare un’opera per la radura del Chiot Rosa. Le masche è la prima opera permanente di Giulia Cenci, commissionata dalla Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT nel contesto di Radis, il progetto di arte nello spazio pubblico promosso dalla Fondazione per il quadriennio 2024-27. Il nome del progetto viene dal piemontese radis (radice) e si propone di arricchire il territorio piemontese con un patrimonio di opere di arte pubblica fuori dagli spazi convenzionali come musei e gallerie.
Dialogo tra la curatrice Marta Papini e Giulia Cenci, l'artista selezionata per la prima edizione del progetto Radis della Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT, su foreste, memoria, natura e interferenze