Vittorio Sgarbi
Leggi i suoi articoliSarà una fonte di felicità e di fantasia l’uscita di questo volume su Gianfilippo Usellini a cura di Fanny Usellini e Luigi Sansone, studiosi innamorati del pittore più «innamorevole», come direbbe il suo simile Juan Rodolfo Wilcock, che sia mai esistito, capace di sedurti e farti volare in meravigliosi verdi paradisi infantili. Lì troveremo quello che abbiamo soltanto sognato. Per mano ci porta con un sorriso, talvolta malinconico, lo stesso Usellini. Allegria? Malinconia?
Non esiste una pittura allegra. Esiste una pittura spiritosa o paradossale. Non è allegra nemmeno la pittura di Magritte. Non lo è quella di Miró. E neanche sono allegri i pupazzetti di Keith Haring. In alcuni casi, come nelle illustrazioni di Norman Rockwell, la pittura può essere spiritosa, perché lo è la realtà. Ma l’allegria è un sogno. E i pittori preferiscono dimostrare tesi relative a un mondo ideale (Piero della Francesca) o a un mondo reale (Caravaggio). Altri coltivano la pura bellezza, come Raffaello o Guido Reni. E poi ci sono i pittori della vita, come, in diverso modo, Rubens, Velázquez, Rembrandt. Divertenti non sono neppure William Hogarth o Pietro Longhi.
Insomma, il campo è libero. Se a presidiarlo non vi fosse un genio dello humour, Gianfilippo Usellini. Nutrito di de Chirico e Magritte, di cui era pressoché contemporaneo, doveva sentirne i limiti: troppo seri, troppo concettuali, benché spiritosi nella vita. Inizia con commissioni pubbliche, durante il fascismo (1935), dove si manifesta come realista magico rispetto alla vita quotidiana dipingendo la sala del Consiglio provinciale di Sondrio con sei grandi encausti parietali raffiguranti attività tipiche della Valtellina: mietitura, vendemmia, tessitura, filatura, pesca, alpeggio, caccia, industria del legno, lavorazione del granito e alpinismo; e, ancora, pittura sacra nel Battistero di Broni (1936); le vetrate per la chiesa del nuovo Ospedale Maggiore di Milano (1939).
Usellini comincia a manifestarsi soprattutto nel dopoguerra, quando viene pubblicata una monografia per Hoepli nel 1942 e si realizza la sua prima mostra personale negli Stati Uniti nel 1948. Per capire come Usellini arrivi alla sua singolare poetica si possono incrociare due sue osservazioni. La prima: «Mi sono accorto che per me dipingere è come sognare in pieno giorno». La seconda: «Dipingo un po’ per cercare di sorridere, un po’ per distrarre il mio prossimo che, in fondo, senza sapere perché, sento di amare». Parte metafisico, a ben vedere, se si considera l’«Autoritratto» del 1926, dove si prende molto sul serio, come un monaco in una cella, concentrato nel suo lavoro.
In realtà appare una falsa partenza, se già dieci anni dopo dipinge «Il paracadute», un’invenzione dove immagina un paracadutista scendere nel cortile della Casa del Mantegna a Mantova come in un convento di suore impaurite; e nel 1937 «Le nuvole», con un battitore di fiocchi di lana che si trasformano in nuvole salendo verso il cielo. Il cielo, sempre il cielo, con fantasie di aerei, angeli e demoni, sopra la testa di uomini ignari. La paura e la sorpresa governano l’immaginazione di Usellini, così imprevedibile e lontana dalle periferie di Sironi, dalle soffocate nature morte di Morandi, in tempi d’indifferenti, d’inquieti, di ansiosi, di disperati.
La Terra di Usellini è l’opposto della Waste Land di T.S. Eliot. È un luogo di apparizioni e di evocazioni che convivono con gli umani spaventati, in un mondo luminoso e favoloso, nato da un ripensamento della pittura quattrocentesca, soprattutto di Paolo Uccello, del Mantegna e del Carpaccio, e anche di ricordi d’infanzia ambientati nella casa paterna di Arona: un palazzo settecentesco che spesso ritorna nelle opere di Usellini. Esce di qui il suo singolare classicismo costituito da ispirazione metafisica e continuamente animato da un sentimento di stupore. Anche nella tecnica pittorica Usellini si ispira ai maestri antichi, riprendendo la tempera grassa a velature.
Pochi pittori rappresentano il senso della pittura come sogno, fiaba, visione, in modo altrettanto efficace di Usellini. Egli non voleva essere considerato un surrealista e, soprattutto, non voleva essere considerato un pittore divertito e divertente. Si sentiva, piuttosto, vicino ai metafisici, perché le sue favole non sono altro dalla realtà, ma la loro ragione sottile, quello che si nasconde dietro le sue apparenze mutevoli e false, dietro il fluire convulso degli avvenimenti. Esemplari dipinti come «La biblioteca magica» (1960), quasi un omaggio a Borges, nella realtà che i libri creano: i personaggi e i protagonisti delle storie escono dalle pagine e prendono vita in un teatro della fantasia. Il cavallo di Troia che domina la composizione richiama l’eterno conflitto fra il bene e il male.
Negli anni Sessanta dipingerà fughe, piccole fughe, mettendo in scena lo spavento, interni con preti e diavoli, carnevali. «La mia pittura vuole rappresentare il bene e il male [...], la loro perpetua lotta, il loro continuo intrecciarsi e giocare sulla bilancia della vita. Si tratta di un problema che mi ossessiona fin dagli anni dell’infanzia e dal quale non uscirò fuori che con la morte [...]. Io voglio che chi guarda un mio quadro ne abbia anzitutto un sollievo [...], l’arte deve rallegrare la gente, non immusonirla». Ad Arona dipinge, nell’atrio di una scuola secondaria, riambientando «La biblioteca magica», un’allegoria della quale la figlia Fanny scrive: «Un’Arona storica, splendida nella limpidezza di un mattino di settembre, visibile casa per casa, con la sua Rocca coronata da una gotica pineta, com’era una volta, fino alle fornaci e al colosso di San Carlo. [...] Nelle acque che lambiscono la magica biblioteca, che si affaccia sul lago, numerosi giovani nuotano, sono studenti desiderosi di raggiungere la riva del sapere, della conoscenza, della cultura. Qui è la storia che torna a rivivere con i grandi del passato, ciascuno con il suo volto; non ci sono protagonisti di guerre e violenze: per loro sta come grande minaccioso simbolo il cavallo di Troia. Torna invece a rivivere tutta la storia più valida e costruttiva dell’umanità, dagli scienziati ai navigatori, agli artisti ai santi: è un inno al trionfo dell’intelligenza e dell’intuizione, della fantasia e della creatività. [...] ».
Con questo spirito, più di ogni altro pittore, Usellini intese la sua opera come impresa pedagogica, formativa, per elevare i cittadini e i giovani come nessun artista in età democratica, neanche Guttuso, neanche i muralisti messicani, figli della ideologia. Nel 1960 dipinge quattro grandi tele per le Scuole medie di Vimercate, dedicate alle principali attività spirituali e materiali dell’uomo. Nel 1962 realizza ad Arcumeggia, sulla strada, l’affresco «Il ritorno dell’emigrante». Nel 1967 esegue, sempre ad Arcumeggia, la decorazione di una cappella votiva con gli affreschi di «Sant’Antonio Abate» e «San Rocco». Come un pittore antico, come Lorenzo Lotto a Trescore Balneario.
«La mia pittura nasce dal mondo della mia infanzia e più precisamente dall’atmosfera particolare della mia casa di Arona, una vecchia casa del Settecento. Tutto quello che vive nella mia memoria e che ho di più caro è il mondo incantato della mia infanzia».
A cura di Luigi Sansone e di Fanny Usellini, figlia dell’artista, Allemandi, con il sostegno della Fondazione VAF, pubblica in due volumi il Catalogo generale di Gianfilippo Usellini (pp. 732, ill. col. e b/n, € 300). La catalogazione include oli, tempere e disegni, ed è introdotta da testi e contributi dei curatori, di Elena Pontiggia, Umberto Faini, Eliana Tovagliaro, Matteo Zarbo e Vittorio Sgarbi, da cui è tratto il brano qui pubblicato.
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