Bottini di guerra, furti, espropriazioni, confische, vendite forzate: da sempre il patrimonio culturale, nazionale o di privati (questo il caso vergognoso delle opere di proprietà di ebrei sottratte loro al tempo del nazismo e del fascismo), è soggetto a spoliazioni. Superfluo citare il caso, antico ma tuttora irrisolto, dei marmi del Partenone, giunti a Londra per intervento (acquisto, come dicono i britannici? Furto, come invece sostengono i greci?) di Lord Elgin. Ma anche l’Italia, forse più di ogni altro Paese, ha visto il suo patrimonio non solo archeologico depredato e acquistato illecitamente da musei internazionali, che solo in anni recenti li hanno in parte restituiti: 600 di essi, per un valore di 60 milioni di euro, sono rientrati ultimamente dagli Stati Uniti e presentati, nel maggio scorso, all’Istituto Centrale per il Restauro.
Si tratta di un dibattito mondiale, innescato dalla questione bruciante delle opere espropriate da nazisti e fascisti, da cui è emersa la consapevolezza dell’urgenza di sanare la ferita. All’interno di questo vasto dibattito, è particolarmente delicata la questione delle collezioni etnografiche, spesso frutto di razzie coloniali. Il Codice Etico dell’Icom è categorico: «quando [i beni culturali] siano stati esportati o comunque trasferiti in violazione dei principi stabiliti dai trattati internazionali e nazionali, il museo [che li detiene] deve prontamente e responsabilmente attivarsi per collaborare alla restituzione». Ma come? Ne parliamo con Marina Pugliese, direttrice, e con Carolina Orsini, Anna Antonini e Sara Chiesa, conservatrici, del Mudec-Museo delle Culture di Milano, istituzione impegnata in numerose iniziative in tale ambito.
Quale primo passo dovete fare per la restituzione dei beni etnografici ai Paesi d’origine?
Marina Pugliese: La restituzione avviene a valle di un lungo processo di verifica e deve peraltro essere concordata con i Paesi d’origine delle opere trafugate. Prima di arrivare a quella fase, occorre avviare gli studi sulla provenienza, e verificare i passaggi di proprietà dell’opera. Nostri interlocutori sono i Consolati, i musei che possiedono collezioni analoghe, il Nucleo Tutela dei Carabinieri. Quindi, una volta verificata una provenienza illecita, è necessario concordare la restituzione. Sarebbe però sbagliato dare per scontato che tutto il patrimonio etnografico dei musei occidentali sia stato sottratto: talvolta è stato donato, o più spesso prodotto esplicitamente per una committenza estera.
Ma che cosa si intende esattamente per ricerche sulla provenienza?
Anna Antonini: Si tratta di una serie di operazioni a metà tra la ricerca scientifica e la «due diligence» legalmente intesa, che ripercorre la vita dell’oggetto a ritroso, con lo scopo ultimo di capire quale sia stato il suo luogo di produzione, dato che in molti casi non è noto per l’oggetto musealizzato. La «provenance research», come è conosciuta in ambito internazionale, si è sviluppata nell’ambito dei processi di restituzione di opere d’arte sottratte ai legittimi proprietari in epoca nazifascista, ma oggi si applica anche al contesto che stiamo descrivendo in questa intervista. Per noi la «provenance» è essa stessa un’azione di decolonizzazione: reperisce i dati che ricostruiscono le storie delle persone e degli oggetti e consente alle comunità internazionali di sapere dove si trovano i loro oggetti, che è chiaramente un passo di riparazione per eventuali torti inflitti o subiti.
Carolina Orsini: Oggi comunque si tende a parlare di «riparazione», più che di «restituzione». Molti dei Paesi d’origine leggono la restituzione come un nostro tentativo di lavarci le mani, dal momento che il vincolo delle opere con il loro territorio, dopo decenni di permanenza all’estero, si è molto diluito. Altri invece richiedono con grande forza il patrimonio da noi detenuto. E se è vero che alcuni dei Paesi non hanno musei con parametri adeguati di sicurezza e conservazione, sarebbe scorretto per noi trincerarci dietro a questa giustificazione.
Esiste una rete nel mondo di musei etnografici? In Italia che cosa è stato fatto sinora?
Orsini: Esiste il gruppo mondiale Icom sull’etnografia. La novità è la recente istituzione del Gruppo di Lavoro sulla Provenienza di Icom Italia, di cui il Mudec è cofondatore. Ora stiamo lavorando con l’Iccd-Istituto Centrale Catalogo e Documentazione sulla piattaforma Sigec Web per migliorare le voci sulla provenienza, e stiamo per redigere un manifesto con il gruppo Icom.
Pugliese: Inoltre in novembre, al Mao, Museo d’Arte Orientale di Torino, formalizzeremo la rete dei musei etnografici italiani, il Mipam, cui hanno già aderito una trentina di musei, piccoli e grandi. Il Mudec è capofila e fondatore della rete.
Nel Codice Etico Icom si parla di obbedienza ai «trattati internazionali e nazionali»: quale legislazione prevale?
Pugliese: In generale si applicano la Convenzione Unesco 1970 e l’Unidroit del 1995, ma trattandosi di patrimonio internazionale è anche necessario tenere conto delle leggi dei Paesi di provenienza...
Un labirinto. Come uscirne?
Orsini: Dotandoci di una procedura nostra, basata su trasparenza e cultura della legalità. Il Mudec è stato pioniere, avendo messo tutto il suo patrimonio online. Di un’ampia percentuale di esso non abbiamo, al momento, certezze sulla provenienza: lo mettiamo perciò a disposizione delle altre parti, specie se si tratta di opere arrivate negli ultimi 50-60 anni.
Pugliese: Il che è quanto mai necessario, anche perché l’attuale groviglio legislativo rischia di scoraggiare le donazioni dei privati ai musei e di far tornare le opere sul mercato secondario. Al Mudec abbiamo ricevuto la proposta di donazione di una collezione torinese di oltre 300 opere dell’Africa subsahariana e del Sud-Est asiatico e abbiamo deciso di accettarla come deposito per poterla studiare non solo sul fronte della provenienza ma anche della pertinenza con le nostre collezioni, per poi condividere con i donatori la destinazione finale delle opere: in parte al Mudec, in parte ad altri musei, in parte, potenzialmente, ai Paesi d’origine. In parte, infine, mettendo una selezione di oggetti non vincolati a disposizione delle comunità di interesse, perché siano utilizzati a scopo didattico. A questo proposito abbiamo organizzato un seminario con Paul Basu, presidente del nostro comitato scientifico (e curatore del Pitt Rivers Museum dell’Università di Oxford) e stiamo lavorando a un progetto pilota a livello internazionale. Ciò che appare evidente, comunque, è che sta finalmente maturando una consapevolezza della necessità di un protocollo etico riguardo a questo tema.
Ci potete raccontare qualcosa di più su questo progetto?
Sara Chiesa: Gli eredi del collezionista si sono dimostrati attenti ricettori della volontà del Mudec di assumere la collezione quale «caso studio» per interrogarsi sul ruolo etico e legale del museo nel decidere che cosa e come selezionare le opere che sarebbero potute entrate a far parte della collezione del museo. Il processo stesso di selezione e valutazione della proposta è diventato quindi parte della ricerca, con la sua ambiguità e incertezza. Da qui l’idea del workshop, organizzato lo scorso maggio, in cui si è cercato di problematizzare la questione da diverse prospettive: provenienza, mercato, questioni legali, autenticità e contesto d'origine, restituzione, narrazione e risemantizzazione del patrimonio con le comunità d'origine e quelle della diaspora. Il coinvolgimento di figure con background culturale e professionale differente ha reso la riflessione vivace, permettendo di sperimentare una metodologia e un protocollo applicabili anche a proposte future.
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