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«Vertunno e Pomona» (1636-37) di Pieter Paul Rubens, Museo Nacional del Prado, Madrid

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«Vertunno e Pomona» (1636-37) di Pieter Paul Rubens, Museo Nacional del Prado, Madrid

La pratica artistica e letteraria degli emblemi e delle imprese

Questi due generi, intrinsecamente connessi all’arte visiva e alla scrittura, fiorirono durante il periodo rinascimentale e barocco come una forma espressiva unica. Un excursus storico, in compagnia di Mario Praz

Giuseppe Balducci

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La letteratura degli emblemi e delle imprese, intrinsecamente connessa all’arte visiva e alla scrittura, fiorì durante il periodo rinascimentale e barocco come una forma espressiva unica. Caratterizzata dalla fusione di testi brevi, spesso poetici, e immagini simboliche, questa tradizione si proponeva di comunicare significati complessi e morali in maniera sintetica. Gli emblemi, composti da motto, immagine e epigramma, rappresentavano veicoli potenti di insegnamento morale, spesso utilizzati per esplorare temi come l’amore, la virtù e la mortalità. Questa pratica artistica e letteraria, diffusa in tutta Europa, ha lasciato un’impronta duratura nel panorama culturale, influenzando la percezione estetica e la riflessione intellettuale del suo tempo.

La figura mitologica che più di ogni altra è capace di sintetizzare emblematicamente questa fase della cultura a cavallo tra l’ultimo Rinascimento e il Barocco è, secondo Mario Praz, Vertunno. Rispetto a Proteo, altra figura rappresentativa del Barocco, egli ha la mutabilità, ma Proteo è già mutabilità assoluta, pieno gioco di forme, essenza del Barocco; mentre Vertunno è «meno sfrenato, esperimenta mutazioni in vista d’un fine, cambia più volte la sua figura per entrare nelle grazie della bella ninfa Pomona, cioè personifica il mutare delle culture per ottenere la fertilità dei campi raffigurata in Pomona, la dea dei frutti» (Praz).

In questo contesto, l’era che Vertunno rappresenta è contrassegnata da una successione di sperimentazioni, variazioni di atteggiamento e esplorazioni di nuovi linguaggi che anticipano l’evoluzione completa verso lo stile barocco. Emergono come tratti predominanti «l’inquieta linea serpentina, forse indice dell’ansia di quel periodo, la cangiante policromia, l’emblema» (Praz). Quest’ultimo, con la sua struttura ambivalente, è in grado di trasformare elementi di natura concettuale in immagini plastiche, agevolando così una contaminazione tra l’astratto e il concreto che rappresenta l’aspirazione culminante di quel periodo.

Attraverso l’analisi di emblemi e la loro rilevanza nel Seicento, Mario Praz ha contribuito a un’ampia comprensione di questa forma espressiva, lasciando un segno indelebile nella storia culturale europea. In particolare, i suoi studi sul poeta Richard Crashaw hanno portato alla scoperta di quella «favolosa Atlantide sommersa» che è appunto la letteratura degli emblemi e delle imprese, aprendo nuove prospettive e suscitando interesse duraturo.

I termini «emblema» e «impresa», spesso usati come sinonimi, presentano alcune differenze chiave. In sostanza, un emblema è un’immagine o un disegno accompagnato da un motto o un’epigrafe che insieme trasmettono un concetto o una storia, e può includere figure umane. D’altra parte, un’impresa è una rappresentazione simbolica di un proposito, desiderio o linea di condotta, espressa attraverso un motto o una figura, escludendo spesso le figure umane. Quindi, mentre l’emblema utilizza sia immagini sia parole per comunicare, l’impresa si basa principalmente su parole o segni per esprimere un concetto. I Greci definirono emblemi le opere di tarsia, i fregi dei vasi e gli ornamenti degli abiti. Il giureconsulto Andrea Alciato, che ordinò una raccolta di emblemi, pubblicata per la prima volta nel 1531, estese il significato del termine a tutte le immagini o cifre segrete che si adoperano quando si vuole nascondere il senso di qualcosa.

L’uso degli emblemi è antico e molteplici esempi ci sono forniti dalle Sacre Scritture. Così nell’Esodo si può leggere che il «pettorale del giudizio», che serviva al grande sacerdote Aronne per consultare Yahweh, era composto da dodici pietre che rappresentavano le dodici tribù d’Israele (Esodo, XXVIII, 17-21). Fra i geroglifici degli antichi Egizi si trova un gran numero di emblemi, così in Omero, in Esiodo, nella mitologia greca. Secondo il gesuita Claude-François Ménestrier, gli emblemi possono essere raggruppati in quattro categorie: matematici, filosofici, teologici e morali.

Mario Praz fa risalire la nascita della letteratura emblematica alla diffusione dell’opera di Orapollo Niloo in Occidente. Nel 1419 un sacerdote fiorentino, Cristoforo Buondelmonti, durante un viaggio sull’isola d’Andro, acquistò un manoscritto greco, gli Hieroglyphica di Orapollo, in cui si vide una prefigurazione della dottrina di Cristo. Gli Hieroglyphica furono stampati in lingua greca nel 1505 da Aldo Manuzio, accompagnati dalle Favole di Esopo, tradotti e interpretati da Filippo Fasanini, che fu maestro a Pavia di Andrea Alciato, capostipite di questo genere letterario che avrà immensa fortuna nel Cinque-Seicento. La fortuna degli emblemi di Alciato, giureconsulto, maestro di diritto, epistolografo, epigrammatista, traduttore di Aristofane, commediografo, fu vasta e comportò qualche confusione tanto da attribuirgli la qualifica di «disegnatore e incisore ornamentista»; nonostante le illustrazioni degli emblemi del suo trattato, diverse da edizione ad edizione, rechino spesso attribuzioni e firme, come quelle di «Petit Bernard», del monogrammista P. V., di Virgilio Solis. L’equivoco nacque quando l’incisore fiammingo Jan Sadeler ebbe tra le mani l’edizione degli Emblemata curata dai figli di Aldo Manuzio nel 1546 e pensò di trarre da un emblema un’incisione in rame alla quale appose, oltre al proprio nome di disegnatore ed incisore, quello di «Alciati auctor» (C. H. Heineken). Da quell’«auctor» si sviluppò e prese forma la figura di un Alciato ornamentista, come riporta anche il dizionario biografico degli artisti di Ulrich Thieme e di Felix Becker.

Oltre che per gli Emblemi di Alciato, i geroglifici di Orapollo furono d’ispirazione per composizioni e cicli pittorici, dalla «Primavera» di Botticelli alla «Camera della Badessa» del Correggio, ma anche per edifici, come Palazzo Farnese e quello di Caprarola. Realizzare geroglifici divenne un passatempo, un gioco ingegnoso in cui confluivano apporti eterogenei. È il caso dell’Iconologia di Cesare Ripa, che, pubblicata nel 1593 e ristampata molteplici volte, si ispirava non solo a Orapollo, ma anche a Pierio Valeriano, ad Alciato, Giraldi, Cartari, oltre alle allegorie di chiese, palazzi. Tuttavia, tra le fonti privilegiate della sua Iconologia, occorre menzionare anche le Pitture (1564) di Anton Francesco Doni che, con le sue rappresentazioni emblematiche, gli exempla, le imprese e i motti, ha compartecipato a costituire un tessuto celebrativo e un dettato morale che influenzerà profondamente la letteratura emblematica e la cultura figurativa successiva; carmi figurati, giochi iconici e verbali che caratterizzano il manoscritto sono andati però persi nella «veste austera della stampa del 1564» (S. Maffei).

Risalendo all’arte alessandrina, alla poesia epigrammatica latina, a Ovidio, fonte imprescindibile della concettistica erotica classica, ai poeti provenzali e a Petrarca, i secentisti riscoprirono il gusto per l’epigramma, per una composizione fulminea e concisa: opere come l’«Adone» e la «Strage degli Innocenti» di Marino, nonostante la loro estensione possa trarre in inganno, non sono altro che «sillogi di epigrammi», come «epigrammi sono i sonetti e i madrigali […] dei marinisti italiani e stranieri, come […] Crashaw», il maggiore esponente del marinismo inglese. In un verso di Marziale, secondo Praz, è sintetizzato lo spirito concettistico del Seicento: «O quantum est subitis casibus ingenium!», in cui compare quell’argutezza (ingenium) così ricercata dai secentisti. Non a caso, Baltasar Gracián, autore di Agudeza y arte de ingenio (1648), definirà Marziale «Primogenito de la Agudeza» e vedrà nella Spagna (Marziale era originario di Bilbilis, nella Spagna Tarraconense) il clima specifico dell’arguzia.

«Paysans se prosternant devant une relique» (seconda metà del Cinquecento) di J. Sadeler

I secentisti, seguendo l’ispirazione di Petrarca e la tradizione epigrammatica, cercavano di stupire il lettore con il ricorso all’arguzia. L’obiettivo che si prefiggono i secentisti è, in genere, quello di sorprendere il lettore con il ricorso all’«arguzia» e attraverso immagini incisive. Il fine ultimo è, in definitiva, quello di suscitare la «meraviglia», come raccomanda Giambattista Marino in un celebre distico: «È del poeta il fin la meraviglia, / Chi non sa far stupir vada alla striglia». In questo contesto, emerse il ruolo centrale degli emblemi, dove la rappresentazione visiva e il motto svolgevano un ruolo chiave nell’esprimere concetti profondi. Il secentista è, per Emanuele Tesauro, autore del Cannocchiale Aristotelico, o sia Idea delle Argutezze Eroiche, un «arguto favellatore», il quale va «motteggiando agli uomini e agli angeli, con varie imprese eroiche e simboli figurati, gli altissimi suoi concetti». Questi simboli visivi, spesso accompagnati da motti, divennero un veicolo popolare per esprimere concetti complessi in modo sintetico. Paolo Giovio, ad esempio, delineò cinque requisiti fondamentali per realizzare un’impresa perfetta, sottolineando l’importanza della giusta proporzione di figura e motto, e della bellezza visiva.

L’affinità per l’arguzia e il concetto, cara ai secentisti, si rivela tanto come un gioco coltivato negli ambienti cortigiani quanto come un serio tentativo di sollecitare l’intelletto. Questa tendenza non è un fenomeno isolato nel Seicento; piuttosto, può essere fatta risalire a radici più antiche, come sottolineato da Praz negli Studi sul con­cettismo. Petrarca, nell’epistola a Zoilo (Metr., II) preannuncia l’argutezza dei secentisti, associandola all’«acies lyncea», all’occhio linceo: «quaedam divina Poëtis / vis animi est veloque tegunt pulcherrima rerum / ambiguum quod non acies, nisi lyncea rumpat». Questo verso riflette la convinzione petrarchesca che un potere divino indefinito risieda nei poeti, consentendo loro di celare sentenze profonde sotto un velo che solo l’occhio linceo può penetrare. In questo contesto, i secentisti adottarono e amplificarono questa tradizione, trasformando l’argutezza in una forma d’arte attraverso emblemi e concetti, veicolando idee complesse e sorprendendo il pubblico con un tocco di ingegno e profondità (G. Innocenti). Questa affinità per l’arguzia e il concetto rappresentò un momento cruciale nella storia culturale del Seicento, contribuendo a definire il carattere distintivo di questo periodo.

Il gusto dei secentisti per i concetti è parso ora un’«aberrazione del gusto», ora un mero passatempo, ora un gioco coltivato negli ozi della vita cortigiana e accademica, finalizzato ad ammazzare il tempo più che a sollecitare l’intelletto. Per Benedetto Croce «non poteva essere arte, perché consisteva in un atto pratico, nella finzione di un pensiero e di un sentimento, in un gioco […], un vuoto teoretico». Mario Praz, da parte sua, con una prospettiva più ricca e approfondita rispetto a Croce, individuò nell’epigramma la fonte comune di emblema e concetto, e ne tracciò una sorta di storia «ideale» ed «eterna» da Marziale ai secentisti, passando per il Petrarca «concettoso» e per i bestiari medievali, cui la letteratura degli emblemi e delle imprese attinse ampiamente: si verificò, infatti, «un massiccio travaso» dai bestiari e dai lapidari medievali alle «raccolte di emblemi secentesche», in cui gli animali sfilano in «un simbolico corteo svelandoci il loro significato segreto» e, osservava Praz, citando Thomas Browne, la «“innaturale storia naturale degli antichi” (Plinio, Eliano, etc.)» è accolta «come attendibile e trasportata al morale».

L’approccio di Praz integrava in modo profondo la storia dell’arte e della letteratura, superando l’analisi superficiale di Croce, che considerava il gusto dei secentisti alla stregua di un divertissement. Praz rivelò così una comprensione più completa e penetrante delle radici culturali e simboliche che alimentavano la letteratura degli emblemi e delle imprese nel Seicento. Praz si distinse per la profondità della sua analisi, affrontando il tema metodologico del «testo mediatore» in modo squisitamente warburghiano. Questo concetto metodologico, centrale nel metodo di analisi di Praz, contribuì a comprendere il pensiero che sta dietro all’uso di motti o immagini, arricchendo ulteriormente la sua interpretazione della letteratura degli emblemi e delle imprese nel Seicento. Contrariamente a Croce, la cui valutazione rimase su un piano più teorico e superficiale, Praz approfondì il contesto culturale e simbolico, conferendo al suo lavoro una profondità metodologica e interpretativa più completa.

La letteratura degli emblemi e delle imprese emerge come un elemento cruciale nel tessuto culturale del Seicento. Questa forma espressiva, con le sue radici profonde e la sua capacità di fondere l’arte visiva e la scrittura, ha contribuito in modo significativo alla riflessione intellettuale, artistica e morale dell’epoca. Attraverso emblemi e imprese, i secentisti hanno veicolato idee complesse, promuovendo sperimentazioni artistiche e stimolando un approccio più profondo alla rappresentazione simbolica.

Giuseppe Balducci, 16 agosto 2024 | © Riproduzione riservata

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