Vittorio Sgarbi
Leggi i suoi articoliNebbia. Inconsistenza di cose vicine, indeterminatezza di cose lontane. Nessuno ha mai veramente dipinto la nebbia, se non forse, in diverso modo e momenti, Guido Reni e Morandi. Non si dipinge la nebbia, perché confonde la vista. Ci si può immergere, si può essere avvolti nella nebbia. La nebbia non è; ma il non essere è la sua essenza.
Eppure un pittore, come nessun altro, e prima di Turner con il suo «Pioggia, vapore e velocità», riesce a dipingere la nebbia come sentimento, come forma che anima le cose, come luce interiore: è un mantovano, Giuseppe Bazzani, nato nel 1690, pittore di dipinti ecclesiastici, a suo agio con i soggetti biblici ed evangelici, le pale d’altare e, con buon estro e grande fantasia, pronto ad affrontare, da grande scenografo, temi mitologici.
Ai suoi esordi, vicino un pittore estroso e obliquo come Francesco Maria Raineri detto lo Schivenoglia (con il quale si ritrova nei cantieri di Palazzo di Bagno e Palazzo Cavriani), le origini mantovane gli consentono una consumata confidenza con i grandi maestri, ai quali costantemente si ispira, soprattutto nella libertà del segno pittorico, in una ostinata attitudine ai «d’après»: da Veronese, da Rubens, da Fetti; e anche, per affinità personale, da Tiziano e da Bassano.
Quest’ultimo dovette sembrargli stimolante anche per i tagli scorciati e i punti di vista da dietro e di taglio, come li vediamo, esemplarmente, nelle storie di San Giuseppe o nelle tele per Santa Maria della Carità a Mantova. In tempi moderni, la conoscenza di Bazzani passa attraverso una convergenza tra gli studi di Nicola Ivanoff, fin dagli anni Cinquanta, di Edoardo Arslan e di Chiara Tellini Perina, nei primi anni Sessanta e il gusto anticipatore di collezionisti originali e radicali come Francesco Molinari Pradelli e Cesare Rimini. Difficile dimenticare la spericolata «Allegoria della fecondità», già in Palazzo Massarani, dominante nella collezione Molinari Pradelli; e poi i trentasette dipinti turbinosi, di diversi momenti, specchi dell’anima di Rimini.
A partire dal presunto «Autoritratto», di febbrile tensione, come chi, di scatto, risponda a un richiamo, volgendo il capo. Esso è forse l’emblema di «quella linea d’ombra dell’arte lombarda», evocata da Flavio Caroli, penultimo studioso del Bazzani, prima del curatore di questa bella mostra di disegni e dipinti: Augusto Morari, che l'ha presentata, con ossessiva passione, negli spazi meravigliosi del Museo Diocesano di Mantova, sotto la direzione di Roberto Brunelli e la buona amministrazione di Marco Rebuzzi.
Molti nodi si sciolgono, molti dipinti trovano i disegni corrispondenti, molti rapporti si chiariscono, con Tiziano, con Rubens, con Guardi, soprattutto intorno alle sanguigne, datate 1747, con le Stazioni della via Crucis, appartenenti alla Fondazione d’Arco. Raramente Bazzani data i suoi dipinti, e per questo risulta ardua una cronologia della sua vasta produzione. L’altra Via Crucis, nella chiesa di San Barnaba, chiarisce la sua formazione, fra Rubens, Fetti, Maffei, il Grechetto e Magnasco. Il ciclo giovanile delle Storie di Alessandro Magno, nella collezione D'Arco a Mantova, mostra invece iniziali consonanze con i veronesi Balestra, Cignaroli e Dorigny.
Attorno al 1732 possono essere state eseguite le tele («Battesimo di Gesù», «Estasi di S. Luigi Gonzaga») della parrocchiale di Borgoforte, in cui sono vivi i ricordi del Balestra. Del 1739 è la pala con la «Tradizione delle chiavi», per la chiesa parrocchiale di Goito, con un gusto barocco di discendenza rubensiana e carraccesca. Ma non gli basta. La fase matura del Bazzani (come mostra il «Battesimo di Cristo», del 1737 ca, nella parrocchiale di San Giovanni del Dosso) esibisce originalmente motivi rococò, in cui si registrano affinità con il Pittoni e con Bencovich, nonché preludi al Guardi.
Circa al 1742 è riferibile la vibrante «Predica del Battista» della parrocchiale di Gazoldo degli Ippoliti; nel '47 i disegni ricordati della raccolta D'Arco. Nella parrocchiale di Revere sono conservate due importanti opere datate: la «Madonna con Santa Chiara», del 1751; e l'«Annunciazione», del 1752. Le ultime opere (i dipinti della chiesa di S. Maria della Carità, databili attorno al 1752, i «Miracoli di Pio V» nella chiesa di San Maurizio e il «San Romualdo» in San Barnaba) mostrano un magistero consapevole e mai provinciale, nonostante la marginalità di Mantova nel Settecento.
Bazzani dipinge come se fosse a Venezia. Al 1758 vanno datate le notevoli tele con «Santa Teresa» e il «Ritratto di cardinale gonzaghesco» della parrocchiale di Sacchetta. Del 1764 è la Pala con Santa Margherita da Cortona, già nella collezione Prampolini Tirelli a Roma. Nel soffitto della chiesa di San Barnaba gli ovali, del 1768 circa, con San Barnaba e San Paolo, documentano l'estrema maniera del Bazzani.
In occasione della mostra occorre dunque, in giornate nebbiose, partire da Mantova e, oltre i mattoni delle facciate settecentesche, entrare nelle parrocchiali di Borgoforte, di Portiolo, di Revere, di Quingentole e vedervi occhieggiare e lampeggiare i dipinti spregiudicati di Bazzani. Il loro impianto è semplice, scatti di pittura veloce e vibrante accompagnano l’avvitarsi a spirale dei personaggi nelle pale, con improvvise intrusioni.
Queste sono le composizioni di Bazzani, con Madonne sfuggenti e bambini intorcinati, come nella «Sacra famiglia con santa Elisabetta» o nel sapido «Riposo durante la fuga in Egitto». Sempre originale e scattante, sempre annuvolato, Bazzani ha l’istinto della composizione anche nelle invenzioni più semplici, come gli ovali con gli «Evangelisti» nella chiesa di San Bartolomeo a Vasto, o le discinte Maddalene che risolve con una velocità sorprendente; rende piacevoli anche i soggetti devozionali come le estasi di Sant’Antonio o di San Luigi Gonzaga, o le orazioni di Cristo nell’orto e, naturalmente, i martiri. Rari. Mai dolorosi, mai sanguinari: Bazzani è il più insuperabile maestro dei bianchi, come nel meraviglioso «Sogno di San Romualdo» per la Chiesa di San Marco a Mantova, con la visione della scala che da Camaldoli arriva in Paradiso.
Gli effetti, gli esiti, la facilità ricordano talora le veloci strisciature di Jacopo Bassano o gli impasti cromatici del tardo Tiziano. Quanto a lui, quando è tardo appare incorporeo, nebuloso, non finito fino a far diventare corpi la nebbia come nella «Incredulità di San Tommaso» in palazzo Sordi; o nell’immateriale «Battesimo di Cristo», dipinto per la Cattedrale di Mantova nel 1769, l’ultimo anno di vita del pittore. Sono pensieri estremi in cui si spegne l’energia elettrica della pittura di Bazzani. Oltre la nebbia c’è la morte.
Eppure nessuno ha, come il Bazzani, dipinto prima l’anima che i corpi, in un’ansia formale che lo fa essere un pittore visionario, parente di Sebastiano Mazzoni, di Giovanni Antonio Pellegrini, di Nicola Grassi, di Gianantonio Guardi, di Federico Bencovich, di Füssli e prima ancora di Parmigianino, di Bassano, di El Greco. Gratitudine ad Augusto Morari per avere portato la vita di Bazzani nelle stanze spirituali del bel museo diocesano di Mantova (in una mostra aperta fino al 6 gennaio 2020). Con la luce della nebbia.
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