Flaminio Gualdoni
Leggi i suoi articoliLa mostra strepitosa di Robert Capa e Gerda Taro da Camera a Torino («Robert Capa e Gerda Taro: la fotografia, l’amore e la guerra», dal 14 febbraio al 2 giugno) ha, dal mio punto di vista, un’altra specifica ragione di grande interesse, dal momento che riporta l’attenzione su Death in the Making (1938), il primo libro pubblicato da Capa, vera pietra miliare della fotografia moderna.
Fare un libro, per un autore di fotografia, è di solito dare un’ulteriore dimensione saggistica al proprio lavoro, più pensata e articolata della pubblicazione delle immagini sui magazine che commissionavano gli scatti. Nel caso di Death in the Making, invece, la biografia e la storia irrompono imperiose e prepotenti: Gerda, compagna di vita e di lavoro di Capa, è appena morta, investita da un carro armato durante la battaglia di Brunete, nella guerra di Spagna.
A New York, in quattro e quattr’otto, con l’urgenza dell’attualità, Capa, ungherese che allora non parlava ancora inglese, monta il libro, con il layout di un altro leggendario fotografo ungherese, André Kertész, come fosse un fiore posto sulla tomba di Gerda. Dentro, ci sono gli scatti divenuti celebri della guerra civile spagnola, e la sovracoperta riproduce l’ormai mitologica «Morte di un miliziano», scattata il 5 settembre 1936: non è nell’interno del libro ma solo qui, come fosse un ripensamento e un’aggiunta dell’ultimo momento.
In qualche modo non è un libro sull’autore, ma davvero sulla guerra di Spagna, duro, ispido, essenziale (lo si può assaporare partitamente nella riedizione che ne ha fatto Damiani nel 2020). Allora Capa non era ancora famoso, era un giovane fotografo engagé (sarà suo fratello minore Cornell a definirsi «concerned photographer»), e solo nel 1947 fonderà l’agenzia Magnum con Henri Cartier-Bresson, David «Chim» Seymour, George Rodger e William Vandivert: Seymour, neppure menzionato in Death in the Making ma che è stato al fronte con Capa, è tra l’altro colui che inizia il salvataggio della «valigia messicana», lo straordinario fondo di 4.500 negativi di Capa, Taro e Seymour finito dopo molte traversie in Messico e reso pubblico solo nel 2007, di cui la mostra torinese offre assai più d’un assaggio.
Capa farà altre cose, sarà su altri fronti fino a morire in un’altra guerra, su una mina in Indocina nel 1954. Ma la «sua» guerra civile spagnola è un distillato di coscienza civile acuminata, limpida come cristallo. Fu un’epifania allora, ma è stata soprattutto una lezione fondamentale impartita a tutto il tragico Novecento, il secolo che non accenna a finire.
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