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Schizzo della «Fontana dell’esaurimento» di Pavlo Makov, per il Padiglione ucraino alla 59 Biennale di Venezia © Maria Lanlo

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Schizzo della «Fontana dell’esaurimento» di Pavlo Makov, per il Padiglione ucraino alla 59 Biennale di Venezia © Maria Lanlo

La guerra alla Biennale

Il conflitto cancella il Padiglione russo e ridisegna quello ucraino. Ma il tema che accomuna i padiglioni è la diversità

Quando il compianto curatore nigeriano-americano Okwui Enwezor accettò la sfida di curare la Biennale del 2015, un’edizione che avrebbe avuto un impatto sull’arte internazionale ben più duraturo della maggior parte delle mostre veneziane, dichiarò che i padiglioni offrono la possibilità di esplorare «le fantasie e i desideri che ciascuno di noi porta con sé riguardo al proprio posto nel mondo». Nel suo testo sulla Biennale di quell’anno definì «i Giardini, con il loro sgangherato assemblaggio di padiglioni, il luogo ultimo di un mondo disordinato, di conflitti nazionali, di deformazioni territoriali e geopolitiche».

Il conflitto russo-ucraino rende le sue considerazioni attuali e pertinenti. Quando l’esercito russo ha invaso l’Ucraina, gli organizzatori del padiglione hanno detto di non poter portare a termine il progetto sotto le bombe. L’artista Pavlo Makov, scelto per rappresentare l’Ucraina a Venezia con la grande installazione «Fontana dell’esaurimento», ha tuttavia dichiarato a «Il Giornale dell’Arte»: «Grazie al Ministero della Cultura italiano e alla curatrice Maria Lanko, una parte del progetto è stata caricata in auto diretta verso l’Italia. Si tratta di una serie di imbuti di bronzo, non di tutta la fontana, ma il grosso sarà in Italia».

A febbraio, quando ancora non si conoscevano le sorti del Padiglione russo, i suoi rappresentanti, il curatore lituano Raimundas Malašauskas e i due artisti, Alexandra Sukhareva e Kirill Savchenkov, si sono ritirati con un annuncio sull’account Instagram di Savchenkov, rilanciato e condiviso dalla Biennale di Venezia, che ha dichiarato l’indisponibilità a ospitare qualunque progetto o persona legata al Governo russo durante la prosecuzione del conflitto. Sono infatti emersi dei legami tra i commissari del Padiglione russo e il loro Governo.

Il padre di Anastasia Karneeva, infatti, è l’ex generale del Servizio di sicurezza federale, Nikolai Volobuyev, ora vice amministratore delegato di Rostec, società di proprietà dello Stato russo appaltatrice del settore difesa. La Karneeva è inoltre comproprietaria di Smart Art, società di produzione artistica ed espositiva incaricata di gestire il padiglione con Ekaterina Vinokurova, figlia di Sergei Lavrov, ministro degli Esteri, tra i leader della campagna russa contro l’Ucraina.

I Padiglioni nazionali vengono pianificati con molto anticipo, quindi non è detto che lo sdegno per l’invasione russa si rifletterà nei lavori esposti. L’ultima volta però che la guerra ha colpito l’Europa continentale, il conflitto scoppiato nel 1991 nell’ex Jugoslavia, gli artisti della Biennale sì che si fecero sentire. Nel 1993 Antoni Tàpies, che condivideva il Padiglione spagnolo con Cristina Iglesias, presentò «Rinzen»: un enorme letto di ferro fissato al muro, da cui cadevano lenzuola e altri oggetti, definito dall’artista stesso «un appello contro guerra e violenza». Quell’anno Tàpies vinse il Leone d’Oro per la pittura.

Spesso i padiglioni nazionali sono strumenti di potere morbido, commissionati dai Ministeri della Cultura e gestiti con differenti gradi di interferenza degli Stati e d’indipendenza. Diverse le strategie adottate per sovvertire la sovranità nazionale e le ingerenze ai Giardini. Una è particolarmente nuova: i Paesi Bassi hanno ceduto all’Estonia il loro padiglione progettato da Gerrit Rietveld e si sono trasferiti in una chiesa a Cannaregio. Ma come aveva sottolineato Enwezor, all’interno dei padiglioni «le fantasie e i desideri» dell’identità nazionale possono essere esplorati in un contesto carico di storia, anche senza essere l’argomento centrale.

Sonia Boyce ad esempio ammette che il suo lavoro per il Padiglione britannico sollecita una riflessione sul tema: «Chi ci si aspetta che sia britannico? Come gestiamo la differenza nella nostra vita quotidiana». Anche altri padiglioni s’interrogano sul senso di appartenenza nazionale. La Boyce è la prima donna di colore a rappresentare la sua Nazione e lo stesso vale per Simone Leigh nel Padiglione statunitense e per Stan Douglas in quello canadese.

Altri padiglioni stanno finalmente riconoscendo il diverso patrimonio culturale dei propri Paesi: Zineb Sedira è la prima artista di origine algerina del Padiglione francese; l’artista rom Małgorzata Mirga-Tas rappresenterà la Polonia; il Padiglione nordico è stato ribattezzato Padiglione Sámi (ospiterà gli artisti Pauliina Feodoroff, Máret Ánne Sara e Anders Sunna, tutti provenienti dalle comunità indigene del nord della Scandinavia). Colpisce che nel 2022 queste inclusioni siano ritenute così «innovative», ha affermato Sonia Boyce. Anche se gli eventi in Ucraina saranno al centro dei pensieri dei visitatori, la diversità e l’equità saranno quest’anno tra i temi e preoccupazioni principali dei padiglioni.

BIENNALE DI VENEZIA
 

Schizzo della «Fontana dell’esaurimento» di Pavlo Makov, per il Padiglione ucraino alla 59 Biennale di Venezia © Maria Lanlo

Uno schizzo dell’opera «Fountain of Exhaustion» di Pavlo Makov

Pavlo Makov accanto a «The Fountain of Exhaustion» allestita sulle pareti della casa di Oleh Mitasov a Kharkiv, 1996 © Pavlo Makov. Cortesia dell'artista

Ben Luke, 21 aprile 2022 | © Riproduzione riservata

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