Luca Fiore
Leggi i suoi articoliL’Europa è un fiorire di grandi mostre di fotografia. Retrospettive di autori storicizzati, certo, ma anche progetti curatoriali più complessi che affrontano i grandi temi della contemporaneità. E poi esposizioni di autori emergenti, quelli che tra dieci, venti o trent’anni, almeno chi li propone lo spera, diventeranno i venerati maestri delle prossime generazioni. Diversi di questi progetti sono coproduzioni di istituzioni museali, così può capitare di vedere la stessa mostra in più capitali europee. Difficile, però, che prendano la via dell’Italia, dove tendono ad arrivare soprattutto progetti attinenti all’epoca d’oro della fotografia umanistica o legati a iniziative editoriali di respiro locale. Pochi i grandi nomi della fotografia d’autore (da trent’anni non si vede una mostra di Robert Adams, e William Eggleston è un nome pressoché sconosciuto al grande pubblico, per fare solo due esempi).
Ovviamente ci sono eccezioni, anche importanti. Al Palazzo delle Esposizioni di Roma abbiamo visto arrivare progetti dalla Maison européenne de la photographie di Parigi e alla Triennale di Milano grandi percorsi dalla Fondazione Cartier (ancora sulle rive della Senna). Nel 2023, Gallerie d’Italia ha portato ai Rencontres d’Arles la mostra di Gregory Crewdson. Ma, a parte la recente «Reversing the Eye. Fotografia, film e video negli anni dell’Arte povera», realizzata da una collaborazione tra Jeu de Paume, Le Bal e Triennale di Milano, il flusso delle mostre è unidirezionale: l’Italia sembra non essere capace di «esportare» in Europa la propria fotografia. L’ultima mostra importante di un autore italiano in una capitale europea è stata quella di Guido Guidi alla Fondazione Henri Cartier-Bresson di Parigi. Era il 2014.
Sintomo di questa marginalità nel panorama europeo è l’assenza di rappresentanti italiani stabili in uno dei luoghi dove, da dieci anni, si discutono e nascono i più importanti progetti di fotografia. Si chiama «Curators’ Day» ed è un’invenzione di Diane Dufour, vulcanica fondatrice, insieme a Raymond Depardon, di Le Bal a Parigi, uno dei luoghi più vitali e originali che si occupano di cultura fotografica a livello europeo. «Il Curators’ Day, spiega la stessa Dufour, è nato dall’esigenza di conoscere di persona chi, in Europa, era a capo delle principali istituzioni del nostro settore. Abbiamo dato vita a un appuntamento stabile, in cui il rapporto potesse approfondirsi e porre le condizioni per nuove collaborazioni». Ogni anno vengono invitate 25-30 realtà provenienti da una ventina di Paesi e si svolge a novembre, il giorno successivo alla chiusura di Paris Photo, quando praticamente tutti i curatori sono già in città. E come mai l’assenza dell’Italia? «Non dipende certo da un pregiudizio verso il vostro Paese, continua Dufour. Da voi ci sono realtà importanti soprattutto sul fronte dei Festival, come “Fotografia Europea” e “Cortona On The Move”, ma il nostro è un dialogo tra istituzioni museali». In passato, spiega la direttrice di Le Bal, al Curators’ Day ha partecipato Camera, di Torino, ed è stato invitato come curatore indipendente Francesco Zanot. «La questione, probabilmente, è legata al fatto che i musei italiani non hanno dipartimenti specifici dedicati alla fotografia ed è difficile individuare gli interlocutori».
Un altro elemento, sicuramente, è il tema del respiro temporale delle programmazioni europee. Al Curators’ Day i partecipanti sono invitati a condividere i progetti in agenda nei successivi tre anni. Una delle mostre più importanti fatte l’anno scorso in Italia, «Gabriele Basilico. Le mie città», una collaborazione tra Triennale di Milano e Mufoco-Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, è stata decisa, progettata e realizzata in un arco di soli nove mesi. Troppo poco per pensare a un dialogo con istituzioni europee che programmano con 24 o 36 mesi di anticipo. È anche per questo, ma non solo, che Stefano Boeri riesce a portare Juergen Teller a Milano dopo che è stato al Grand Palais di Parigi, ma non gli riesce l’operazione contraria con «il suo» Basilico. La travagliata storia del Mufoco, poi, non ha permesso che l’unico museo pubblico italiano di fotografia si accreditasse come un punto di riferimento in Italia, men che meno all’estero. Non è certo solo una questione di autorevolezza, ma è significativo che «L’Italia è un desiderio», la grande mostra alle Scuderie del Quirinale a Roma, progetto ambiziosissimo in collaborazione con la Fondazione Alinari, sia stata vista solo da 15mila persone. La programmazione tra luglio e settembre non ha favorito di certo le code agli ingressi. Ma è evidente che qualcosa non ha funzionato. Non risulta che fosse prevista una tappa milanese del progetto (avrebbe potuto avere senso), ma alla luce del risultato romano è difficile che qualcuno voglia portarla a Palazzo Reale. Mentre il percorso sull’ultima serie di immagini scattate da Mario Giacomelli, «Questo ricordo lo vorrei raccontare», esposto fino al 19 maggio 2024 nella sede del museo a Cinisello Balsamo, è una mostra che non sfigurerebbe affatto a Le Bal o a C/O Berlin. Ma è una partita che oggi sembra impossibile da giocare.
Un brand molto di moda all’estero è quello di Prada e della sua fondazione milanese. Nella sede milanese di largo Isarco arrivano visitatori da tutto il mondo, ma all’Osservatorio, il progetto dedicato alla fotografia, alla videoarte e alla sperimentazione, che si trova nell’ombelico del salotto buono meneghino, la Galleria Vittorio Emanuele, l’affluenza è più rada. Forse a causa dell’impronta un po’ elitaria della programmazione, forse perché non si è riusciti a connotare in modo preciso l’identità del luogo, fatto sta che quello che poteva essere «il» luogo della fotografia a Milano non lo è mai diventato. Chi invece è riuscito ad accreditarsi come punto di riferimento, almeno italiano, è la Fondazione Mast di Bologna, capace di portare nel nostro Paese grandi nomi internazionali e di dar vita a una biennale di alto livello. Ma Isabella Seràgnoli non sembra essere interessata, almeno finora, a esportare i propri progetti espositivi o a creare delle collaborazioni con istituzioni straniere. Ciò che Mast ha fatto per il capoluogo emiliano, Gallerie d’Italia lo sta facendo a Torino. Due soggetti privati che hanno le risorse per produrre progetti originali di grande valore. Saranno loro a creare un ponte stabile tra l’Italia e l’Europa? E lungo questo collegamento potranno viaggiare anche fotografi italiani in direzione Nord? La storia è maestra, e su questo suggerirebbe scetticismo. A noi però, sempre stati cattivi allievi, basta essere prudenti, ma coltivare il seme della speranza.
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