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Veduta dell’installazione «Untitled» (2022) di Camille Norment presso la Dia Chelsea di New York

© Camille Norment. Cortesia della Dia Art Foundation. Foto Bill Jacobson Studio, New York

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Veduta dell’installazione «Untitled» (2022) di Camille Norment presso la Dia Chelsea di New York

© Camille Norment. Cortesia della Dia Art Foundation. Foto Bill Jacobson Studio, New York

La cinquantenne Dia Foundation allo specchio

Da mezzo secolo la fondazione americana sostiene e mantiene i progetti più imponenti e impegnativi (e spesso diventati leggendari) degli artisti, da Walter De Maria a Donald Judd, da Robert Smithson a James Turrell

Louisa Buck

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La Dia Foundation è stata istituita a New York nel 1974 con l’obiettivo di commissionare e presentare grandi opere d’arte pubbliche in modi mai visti prima. Questa istituzione unica nel suo genere sta entrando in una nuova era che l’ha portata a far coincidere i suoi principi fondanti con le esigenze e i requisiti di un mondo molto diverso. Dia (il nome deriva dal greco antico e significa «attraverso») non ha mai operato come un museo convenzionale o un’organizzazione di finanziamento. Nelle parole dei suoi tre fondatori, il mercante d’arte Heiner Friedrich, Philippa de Menil (ora nota come Fariha Fatima al-Jerrahi, erede della società di servizi petroliferi Schlumberger) e la storica dell’arte Helen Winkler Fosdick, «lo scopo della fondazione è quello di pianificare, realizzare e mantenere progetti pubblici che non possono essere facilmente prodotti, finanziati o posseduti da singoli collezionisti a causa del loro costo e della loro dimensione». 

Questa generosità ha portato alla creazione di opere permanenti di Land art spesso epiche, molte delle quali la Dia Foundation continua a mantenere. Tra queste, «Spiral Jetty» (1970) di Robert Smithson, «Sun Tunnels» (1973-76) di Nancy Holt, «The New York Earth Room» (1977), «The Broken Kilometer« (1979) e «The Lightning Field» (1977) di Walter De Maria, nonché la Dia Bridgehampton, l’ex caserma dei pompieri e chiesa dove nel 1983 Dan Flavin ha installato sculture permanenti di luce fluorescente. La Dia Foundation è stata anche determinante per l’avvio del progetto di James Turrell, tuttora in corso, «Roden Crater» e per facilitare le ambizioni espansive di Donald Judd a Marfa, in Texas, per creare quella che oggi è la Chinati Foundation. 

«Spiral Jetty» (1970) di Robert Smithson a Great Salt Lake, Utah. © Holt/Smithson Foundation e Dia Art Foundation/Licensed by Artists Rights Society, New York

«Forse non abbiamo più le risorse illimitate dei nostri fondatori, ma la nostra missione è ancora quella di mettere gli artisti al primo posto, al secondo, al terzo e al quarto», ci spiega Jessica Morgan, direttrice della Dia Foundation dal 2015. Ma mentre Morgan e il suo team affermano che «la Dia è ancora il luogo che dice “sì” agli artisti, e poi troviamo il modo di farlo, a prescindere da tutto», quando ha iniziato a lavorare era evidente che se la fondazione voleva riguadagnare la sua importanza, doveva cambiare e in fretta. «Eravamo l’epitome di un’istituzione di uomini bianchi e morti, prosegue. Abbiamo ereditato una collezione con due artiste donne e l’unico artista non occidentale che potevamo indicare era On Kawara». Gli ultimi nove anni hanno visto la diversificazione della sua programmazione e collezione, nonché il consolidamento e la riattivazione dei suoi spazi espositivi sia a New York sia a Beacon (nel nord dello Stato di New York), dove dal 2003 la Dia Foundation ha occupato una vasta ex fabbrica di scatole. Una vigorosa raccolta di fondi ha permesso di stabilizzare le sue finanze, ma il cambiamento istituzionale più visibile riguarda gli artisti che sono entrati a farne parte. «Gli anni ’60 e ’70 sono stati un periodo straordinario, ma noi stavamo raccontando solo una rappresentazione parziale di quella storia, dice Morgan. Negli ultimi anni abbiamo invece portato in mezzo a noi artisti che facevano parte di quella storia, ma che ne erano stati esclusi. Si trattava quindi di iniziare a guardare al di là degli Stati Uniti e dell’Europa». 

Quando Jessica Morgan è entrata a far parte della Dia Foundation, la collezione comprendeva opere di circa 20 artisti. Ora sono 71, e 24 di loro sono donne, tra cui Meg Webster, Dorothea Rockburne, Senga Nengudi e Joan Jonas. Espandere la rappresentanza asiatica e latinoamericana della collezione è ora una priorità. Dal 2017 la Dia Foundation possiede una serie di importanti opere di Lee Ufan. Anche gli artisti neri svolgono un ruolo importante alla Dia Foundation. È recente l’ingresso nella collezione di opere del concettualista Charles Gaines, dello scultore Melvin Edwards e del pittore Sam Gilliam. A volte, i nuovi arrivati possono avere un rapporto conflittuale con le opere della collezione principale. Morgan descrive Senga Nengudi, il cui lavoro è in mostra a lungo termine al Dia Beacon, come profondamente critica nei confronti del peso, delle dimensioni e delle risorse di molte opere della sua generazione. «Piuttosto che usare acciaio laminato, sta dimostrando di poter realizzare qualcosa di altrettanto significativo usando caffè, sacchetti per lavare a secco e lettiere per gatti», aggiunge Morgan. 

Veduta dell’installazione «After Mirage (Cones/May Windows)» (1976) di Joan Jonas presso Dia Beacon nel 2021. Foto: Bill Jacobson Studio, New York. Cortesia della Dia Art Foundation. © dell’artista/Artists Rights Society (Ars), New York

Altro obiettivo, il rilancio della presenza della Dia Foundation a New York. Al suo arrivo, Jessica Morgan si è opposta a un progetto da 50 milioni di dollari per la costruzione di una nuova sede. Ha invece aperto, nel 2021, la Dia Chelsea, che ha consolidato e ampliato tre degli edifici della Dia Foundation esistenti sulla 22ma strada ovest. «Avevamo perso il legame con la città non essendo stati aperti a New York per così tanto tempo così abbiamo smesso di affittare i nostri immobili a Chelsea e abbiamo ricominciato a usarli per le mostre», afferma Morgan, sottolineando che la prassi della fondazione è sempre stata quella di esporre le opere in spazi industriali riconvertiti che gli artisti spesso usano come studi. Gli spazi della Dia Chelsea ospitano importanti mostre temporanee, perlopiù di artisti giovani, sviluppate per un periodo indeterminato, che può estendersi per diversi anni. Le mostre segnano una più ampia riattivazione da parte di Morgan del programma di commissioni della Dia Foundation, che era rimasto inattivo nonostante fosse la sua ragion d’essere iniziale. 

Ora, le opere commissionate esposte negli spazi della Dia Foundation finiscono spesso nella collezione della fondazione. Per esempio, recentemente è stata acquisita «Cielo terrenal» (Paradiso terrestre, 2023) dell’artista colombiana Delcy Morelos, che è stata esposta al Dia Chelsea fino al 20 luglio. Il fatto che la Dia Foundation metta in primo piano le performance dal vivo e le opere sonore è un altro modo in cui il passato radicale della fondazione si è manifestato nel suo programma attuale. Morgan afferma che è stato importante immergersi nella storia della Dia Foundation prima di poter iniziare ad arricchirne la collezione. Il suo primo grande progetto è stata la ricostruzione nel 2015 a Chelsea della «Dream House» di La Monte Young e Marian Zazeela (1979-85). Young e Zazeela sono stati i primi artisti a collaborare con la Dia Foundation e la loro «Dream House» ha assunto la forma di un ambiente sonoro e luminoso che ospitava composizioni musicali durature in un edificio a tre piani di Tribeca acquistato dalla fondazione. Altre opere dal vivo della Dia hanno incluso performance dei ballerini e coreografi Trisha Brown e Steve Paxton. Nel 2020 «Party/After-Party», un’installazione sonora e luminosa site specific del produttore di musica techno di Detroit Carl Craig, ha segnato un nuovo approccio. Lo scorso maggio il pranzo di beneficenza per il cinquantesimo anniversario della Dia Foundation ha coinciso con la presentazione di una nuova commissione per la galleria inferiore di 2.800 metri quadrati di Dia Beacon: «Bass» (2024) di Steve McQueen, l’opera ad oggi più astratta dell’artista, composta unicamente di luce, colore e suono. 

«The Broken Kilometer» (1979) di Walter De Maria. © The Estate of Walter De Maria. Foto: John Abbott. Cortesia della Dia Art Foundation

Louisa Buck, 06 settembre 2024 | © Riproduzione riservata

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