Carolina Trupiano Kowalczyk
Leggi i suoi articoliChe molti pittori «viniziani» che «non videro Roma né altre opere di tutta perfezione» dovettero mascherare «sotto la vaghezza de’ colori lo stento del non saper disegnare» (Le Vite, 1568, Vasari) è la frase più discussa della storia dell’arte, e che presta il fianco alle critiche più feroci. Anche questo volume intende ribaltarne il significato, nato dal convengo di studi tenutosi al Warburg Institute di Londra (20-21 maggio 2020) con lo stimolante dialogo sul disegno veneziano circoscritto ai due secoli tra primo Rinascimento e primo Barocco (1420-1620).
La Repubblica Serenissima, per l’estensione dei territori, la supremazia politica, l’entità di scambi dall’Oriente e dal Nord Europa, era intrinsecamente multiculturale, eppure forte nel suo potere conservatore. Inevitabile che il Venitian Disegno racchiudesse una vastità di contributi. Il saggio introduttivo di Catherine Whistler evidenzia che il disegno a Venezia aveva scopo educativo e dimostrativo, oltre a quello meramente pragmatico: gli artisti realizzavano paesaggi o modelli per ritratti come lavori autonomi, poiché perfettamente consapevoli del valore delle loro opere come testimonianza di inventiva e virtuosismo. Pensiamo al mondo narrativo degli studi di Tiziano, con il sagace espressionismo e potere emozionale dei corpi in movimento creato dal gessetto nero rialzato dalla biacca su carta azzurra, che ritroviamo nel saggio di Matthias Wivel. Nella vita intellettuale veneziana il disegno era centrale, come rivela Irene Brooks, tracciando le connessioni del pensiero visuale con l’umanesimo astrologico sul tema, discusso, del Fregio Giorgionesco della Casa Marta Pellizzari a Castelfranco. Basterebbe la vivida descrizione dello studio di Tiziano di Agostino Amadi, ricco di schizzi e disegni, per annientare l’idea vasariana, del cui mito ci narra Lorenzo G. Buonanno. Sulle tecniche artistiche della carta azzurra e dei gessetti colorati, con le implicazioni estetiche e la suggestione del risultato, ampio spazio è dato nei saggi di Thomas dalla Costa e Alexa McCarthy, che analizzano i processi creativi nelle botteghe di Bassano, Tintoretto, Veronese e Palma. Gabriele Matino presenta i «Concetti» di Domenico Tintoretto per il «Miracolo dello Schiavo» come convalida della sua identità artistica in relazione con l’eredità dominante del padre, dopo secoli di discussioni attributive. E ancora, l’uso dei supporti colorati di Jacopo Palma il Giovane, il colore ad olio e i rialzi in oro e argento: la ricerca di infinite possibilità, di nuovo e moderno espressionismo, esposto da Maria Aresin.
Alberto Maria Casciello arricchisce il catalogo grafico di Gian Girolamo Savoldo che, formatosi nell’ambito leonardesco, evolve la sua pratica artistica di realismo e tensione emotiva grazie alle influenze lagunari; John Witty indaga l’elaborazione e i materiali nelle dinamiche «Sinopie» di Pisanello nella Sala dei Principi di Mantova; Larissa Mohr ci narra la fantasia dei soggetti fitomorfi e gli studi di animali di Giovanni da Udine, che si formò a Venezia con Alvise Vivarini. L’arte incisoria trova spazio nel saggio di Bryony Bartlett-Rawlings che presenta Mantegna attraverso gli occhi di Nicoletto da Modena, le cui opere non hanno nulla della copia ma sono propedeutiche alla formazione della propria verve; la meraviglia dell’invenzione, gli strumenti riflettenti, l’emblematica firma di Jacopo de’ Barberi, noto quanto misterioso artista veneziano, secondo lo studio di Kristin Love Huffman.
Denso di novità e dal ritmo incalzante il saggio di Luca Siracusano che indaga l’iconografia e lo stile di un foglio, acquisito dal Metropolitan (2016), raffigurante una «Parete Decorativa»: è il progetto per un affresco di Giovanni Antonio Fasolo commissionato dalla nobile famiglia Gualdo di Vicenza. Anche l’attribuzione del «Santo Seduto» a Lazzaro Bastiani da parte di Gianmarco Russo è di notevole importanza, poiché dimostra come si nascondano tesori ancora inesplorati in molti gabinetti del mondo, in questo caso al Museo Boijmans di Rotterdam. La proposta di Emma P. Holter di attribuire valore finito alla «Lamentazione» di Bellini degli Uffizi, di perfetta luminosità e volumetria, apre nuove inaspettate prospettive sul ruolo del disegno da collezione. Karolina Zgraja suggerisce che il ritratto nell’opera grafica belliniana fosse la testimonianza documentaria del rapporto tra committente e artista.
Il finale di John Marciari sottolinea l’assoluta varietà del disegno veneziano, che stupisce per suggestioni e non segue uno standard, come voleva farci credere Vasari e in seguito Roger de Piles che, alla fine del Seicento, diede vita alla seconda disputa più focosa della storia dell’arte. Che cosa è veneziano? Giuseppe Porta Salviati, toscano, giunge in laguna nel 1539: con il suo squisito uso dei gessetti colorati dimostra che le interconnessioni sono un soggetto complesso e dalle infinite sfaccettature.
Il punto è che non c’è una linea esemplificativa da seguire a Venezia perché, lo vediamo lungo i secoli, il carattere varia ed è mutevole, ma persiste una nobiltà di spirito e assenza di provincialismo che è raro trovare in altre scuole italiane. Sarà per l’eclettica essenza della città lagunare che stupisce per la sua internazionale apertura verso il mondo: nel Settecento non c’erano limitazioni teoriche che incanalassero uno stile, pensiamo alla diversità di approcci di Guardi, Canaletto, Tiepolo, Fontebasso.
Il disegno viene qui indagato a tutto tondo in un libro che si presenta come una ricchissima miniera di notizie, vestita dall’elegante edizione inglese, stimolante per l’indagine profonda sulle tecniche artistiche, con confronti, novità, temi noti ma visti da diverse, giovani e fresche angolazioni. Adesso bisogna trovare il coraggio di affrontare lo stesso prolifico studio per i due secoli successivi (1620-1820).
Venitian Disegno. New Frontiers c. 1420-1620
a cura di Maria Aresin e Thomas dalla Costa, 240 pp, ill., Ad Ilissvm, London, Paul Holberton Publishing, Verona 2024, € 50
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