Rica Cerbarano
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Nove mostre, nove performance, nove dibattiti e oltre 120 artisti coinvolti: questi i numeri della Biennale Jaou Tunis, manifestazione tunisina dall’approccio internazionale che indaga le questioni socio-politiche della contemporaneità attraverso il prisma dell’arte, con un focus speciale sulle società del Sud globale e il loro potenziale emancipatorio e inclusivo. Il tema di quest’anno, «Arte, resistenza e ricostruzione dei futuri» mette in discussione l’egemonia del pensiero occidentale e suggerisce la possibilità (o meglio, la necessità) di un futuro inteso come esperienza politica collettiva, risultato di una fertilizzazione incrociata tra discipline, tradizioni e culture diverse.
La manifestazione è organizzata dalla Fondazione Kamel Lazaar con il sostegno di numerosi partner, tra cui l’Istituto Italiano di Cultura di Tunisi.
Abbiamo intervistato la direttrice artistica Lina Lazaar.
Jaou Tunis ha inaugurato da pochi giorni. Come è andata?
I giorni di apertura sono stati intensi, soprattutto perché hanno coinciso con le elezioni nazionali. Il rischio di cambiamenti inaspettati era sempre presente. Tuttavia, ogni preoccupazione si è rapidamente dissipata quando ho visto la nostra comunità di artisti e intellettuali riunirsi senza problemi. È sempre una sfida quando ospiti e collaboratori si incontrano per la prima volta, portando alla convergenza di sistemi e network diversi. Ora è cominciato il momento, altrettanto impegnativo, della mediazione culturale con le scuole e delle visite guidate.
Ci racconta com’è nata questa manifestazione e quali sono i linguaggi artistici principali?
Jaou Tunis è stata fondata nel 2012 con lo scopo di dare potere agli artisti e di rispondere a una costante protesta sulla mancanza di infrastrutture per la promozione dell’arte in Tunisia. Il nostro obiettivo è occupare spazi storici dimenticati, dimostrando che l’arte può adattarsi a qualsiasi ambiente. Questo «spirito nomade» comporta delle sfide, come l’ottenimento di permessi, la ristrutturazione e la riapertura di questi spazi inusuali, ambienti che diventano parte integrante dell’ideazione delle mostre. Occupando luoghi carichi di memoria, proponiamo un’esperienza più ricca rispetto al convenzionale formato neoliberale del white cube. La fotografia e le immagini in movimento sono i linguaggi fondamentali, ma sono presenti anche musica, danza e dibattiti critici.
Qual è l’obiettivo del progetto?
Lo scopo di Jaou Tunis è creare connessioni tra arte, politica e impegno civico. Miriamo a intensificare le relazioni e ad affermare Tunisi come luogo per future collaborazioni, accendendo al contempo l’immaginazione dei giovani locali e incoraggiandoli a sognare oltre i confini delle loro narrazioni socio-economiche. È un momento storico difficile, in cui ci si interroga, si dubita, si rivaluta e si ridefinisce il presente e il modo in cui esisteremo in futuro. L’arte, pur essendo un linguaggio importante, è per noi in realtà solo un pretesto per innescare dibattiti e conversazioni con artisti, critici e menti brillanti. La Tunisia è il posto giusto per farlo, perché non è stata influenzata dall’eccessiva concezione consumistica e mercificata dell’arte occidentale. Non c’è una tradizione di mercato e di collezionismo e questo ci offre maggiore libertà nel presentare l’arte in modo diverso rispetto a come è concepita nei maggiori centri globali (per esempio Londra o Parigi).
La visione di un «futuro collettivo» è al centro di questa edizione. Inoltre, si parla di «futuri» al plurale. Mi può raccontare di più?
Il tema di quest’anno ruota attorno alle sfide che dobbiamo affrontare come esseri umani, che si tratti di equità ecologica o di affrancamento dalle strutture coloniali. L’arte svolge un ruolo cruciale nell’immaginare un futuro in cui siamo partecipanti attivi e non osservatori passivi. Esplorando «i futuri» al plurale, sottolineiamo i molteplici percorsi che ci attendono, sostenuti dalla solidarietà transnazionale. In questo momento storico complesso, la comunità artistica è pervasa da un senso di impotenza. Di fronte a questo mondo veloce, che ci sta portando sempre di più alla distruzione globale, c'è un vero e proprio senso di ingiustizia, che, credo, sia stato portato alla ribalta anche dal genocidio che sta avvenendo in Palestina. Questo sta effettivamente dimostrando che i sistemi democratici in vigore e le istituzioni per cui abbiamo lottato così duramente sono completamente impotenti e inefficienti al giorno d’oggi. Come risultato, penso che questo abbia creato un senso di necessità di riunirsi in comunità e di trovare alleanze e connessioni profonde. Il senso di impotenza è talmente diffuso che le persone si sono rese conto di non essere isolate, di sentirsi allo stesso modo in diverse parti del mondo, e che in realtà, se fosse loro permesso di lavorare, pensare e co-produrre insieme, questa potrebbe essere una soluzione al senso di smarrimento, o perlomeno un modo con cui trovare un po’ di sollievo.
Il programma pone molta enfasi sulla figura della donna, sia per quanto riguarda i temi che le persone coinvolte. È una scelta consapevole?
Assolutamente no, è qualcosa di spontaneo che deriva dall’ammirazione che provo verso le donne con cui lavoro. Ho il privilegio di collaborare con donne incredibili che sono in prima linea nel portare avanti dialoghi intersezionali verso un mondo più equo. Inoltre, credo che le artiste abbiano un senso di cura della comunità molto più forte rispetto agli uomini. Almeno nel Sud globale, i grandi progetti collettivi sono avviati da donne ed è per questo che Jaou tende a gravitare spontaneamente intorno a loro.
Alcune mostre riguardano l’identità, la storia e la situazione attuale della Palestina. Quanto è importante per lei affrontare questo tema attraverso la lente dell’arte?
Non sono sicura che l’arte possa cambiare lo stato del mondo. È evidente che non ci sono abbastanza immagini, fatti e dati che possano convincere i governi a cambiare direzione. Ma ciò che l’arte ha la capacità di fare è disconnettersi, per un momento, da quel caos, e permettere alle persone una connessione a livello viscerale. La Palestina rappresenta una sfida fondamentale e nessuno potrà essere davvero libero fino a quando non lo sarà anche il popolo palestinese. Attraverso l’arte, a Jaou Tunis preserviamo e amplifichiamo le voci palestinesi contro i tentativi di cancellare il suo popolo e la sua cultura. In questa edizione, lo facciamo con artisti come Basel Abbas, Ruanne Abou-Rahme, Adam Rouhana, Rasha Salti, Rima Hassan, Kamilya Jubran e Mahasen Nasser-Eldin.
Quali sono i progetti futuri di Jaou Tunis?
La prossima edizione vedrà una collaborazione con la Biennale dell’Immagine in movimento del Centre d’Art Contemporain di Ginevra, che si concentrerà su ambiziose commissioni di videoarte. Inoltre, sono molto felice di portare lo spirito della Biennale a Londra l’anno prossimo, con il lancio di un nuovo spazio permanente che avrà il Sud globale e le sue narrazioni al centro della programmazione e della produzione di conoscenza.
E sempre guardando al futuro, quali sono le sue speranze per il mondo dell’arte in generale?
Il sistema attuale ha generato un profondo senso di solitudine, poiché ha privilegiato i concetti di crescita, valore e successo economico. Molti artisti non si riconoscono più in queste narrazioni. Immagino un mondo con più solidarietà e meno ego, dove ci siano spazi per stare insieme all’interno della comunità artistica. Se vogliamo che l’arte sia davvero in grado di guidare conversazioni importanti, dobbiamo permetterle di essere ciò che è. Solo così scopriremo che può guarirci collettivamente. Forse in maniera un po’ ingenua e romantica, mi piacerebbe che l’arte fosse in grado di dare voce a tutti.
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