David Ekserdjian
Leggi i suoi articoliPer la maggior parte delle persone non è facile ricordare il primo incontro con un capolavoro artistico, anche se personalmente sono certo di saperlo. Dal tempo delle mie prime memorie, a casa, sul caminetto dello studio di mio padre, c’era una cartolina del «Cavaliere che sorride» di Frans Hals (1582 ca-1666). Il motivo della sua presenza non è difficile da indovinare: mio padre era la reincarnazione del Cavaliere e, come il suo gemello, portava dei baffi abbondanti. Sicuramente, quando avevo quattro o sei anni il nome dell’artista mi era sconosciuto, ma almeno una delle sue opere mi era notissima. La presenza della tela della Wallace Collection nella mostra in corso alla National Gallery (fino al 21 gennaio e al Rijksmuseum di Amsterdam dal 16 febbraio al 9 giugno 2024) è un piccolo miracolo, perché fino a ottobre del 2019 il museo non concedeva prestiti e anche adesso è sempre molto cauto nell’affidare i suoi tesori a mostre itineranti.
Più di qualsiasi altro pittore, Hals possedeva una capacità quasi magica di fissare per sempre le espressioni momentanee, sorridenti e ridenti, sui volti dei suoi soggetti. Ciò significa, quindi, che il «Cavaliere che sorride» è solo uno dei più indimenticabili di tutta una compagnia di allegri personaggi capaci di dare sollievo ai nostri animi quando li contempliamo. Molte volte questi sorrisi si ritrovano in ritratti ufficiali come questo, ma forse ancora più spesso ricorrono in evocazioni di ubriaconi, pagliacci e personaggi teatrali, soli o in compagnia. Comunque sia, pare evidente che il pittore si sia sempre basato su un individuo che aveva davanti agli occhi. Lungo tutta la sua lunghissima carriera, Hals si è concentrato quasi esclusivamente sul ritratto. Inventava pose genialmente informali, come quelle adottate da Isaac Abrahamsz. Massa, che si gira sulla sua sedia per guardare dietro di sé, o da Willem van Heythuysen che si bilancia precariamente su solo due delle quattro gambe della sua sedia.
Inevitabilmente, però, dato che le possibilità nell’universo del ritratto non sono infinite, molte volte le sue composizioni e i suoi atteggiamenti si ripetono, ma, come noi tutti, gli esseri umani che immortala sono unici. Di molti di loro, com’è il caso del «Cavaliere che sorride», non conosciamo l’identità, ma in ogni caso, con poche eccezioni, come nel caso del «Ritratto di Descartes» a Copenaghen (non presente in mostra), non erano personalità di qualsiasi importanza storica. È la loro anima che conta, non la biografia. La gioia domina nell’universo di Hals, ma sarebbe un grosso errore immaginare che fu solamente capace di riprodurre la felicità, perché è ugualmente brillante nel rappresentare la tristezza, come si avverte per esempio guardando negli occhi malinconici di François Wouters nel suo ritratto a Edimburgo. Infatti, nella cinquantina di opere riunite a Trafalgar Square, tutte le emozioni umane sono presenti.
Due altre doti principali di Hals sono la scioltezza eccezionale delle sue pennellate, riconosciute soprattutto dopo i movimenti dell’Impressionismo e dell’Espressionismo, e forse per questo motivo quasi date per scontate ai giorni nostri, e la straordinaria poesia della sua manipolazione del nero e del grigio. Annegarsi in queste assenze di colore è comprendere la sua sottigliezza, nonostante la sua inconfondibile bravura. Nel comunicato stampa della mostra viene sottolineato il fatto che l’ultima grande rassegna dedicata al pittore olandese a Londra ha avuto luogo alla Royal Academy nel lontano 1990 (a causa della mia età avrei giurato che fosse l’altro ieri). Comunque sia, è affascinante paragonare i criteri di scelta alla base delle due mostre e riconoscere le differenze che ci insegnano quanto il mondo dell’arte, almeno nei Paesi angloamericani, sia cambiato attraverso i decenni.
La maggioranza delle opere sono le stesse, ma per ovvi motivi mancano all’appello alcuni prestiti da San Pietroburgo e Odessa. Alla Royal Academy i grandi ritratti di gruppi erano la «Magra compagnia da Amsterdam» (completata da Pieter Codde), «I Reggenti dell’ospizio dei vecchi a Haarlem» e le «Reggitrici» della stessa istituzione, tutti e due dal Frans Halsmuseum della città, mentre qui tornano la «Magra compagnia» e i «Reggenti», senza le «Reggitrici» (che verranno invece esposte dopo al Rijksmuseum), ma la grande novità è il «Banchetto degli ufficiali della milizia civica di San Giorgio a Haarlem», ugualmente dal Frans Halsmuseum.
Nel contesto di una mostra non si conoscono i dipinti chiesti e poi non concessi: mi sorprenderebbe molto se gli organizzatori non avessero provato a seguire l’esempio della mostra del 1990 per riunire la coppia irresistibile di Stephanus Geroerdts (Koninklijk Museum voor Schone Kunsten, Anversa) con la moglie, Isabella Coymans (collezione privata), purtroppo assenti. Variazioni di altro tipo riguardano l’interpretazione di alcuni soggetti, ma anche le cose che si possono dire nel mondo del «politically correct». Nel 1990 l’irresistibile quadro del Louvre la «Zingara» (in inglese la parola «gipsy» non si usa più), oggi viene descritta in modo neutrale come una «Giovane donna» e si aggiunge tra virgolette il titolo ottocentesco francese, «La Bohémienne». Inoltre, si nota, senza totalmente accettarla, la proposta che possibilmente fu dipinto come una specie di pubblicità per un bordello dove la giovane avrebbe lavorato. Nello stesso spirito, ora la tela di Pekelharing da Lipsia è riconosciuta come la rappresentazione di un attore bianco truccato da nero, mentre nel 1990 la didascalia lo schedava come il cosiddetto «Mulatto» (altra parola vietata). In conclusione, anche se i titoli dei suoi dipinti possono cambiare, la simpatia di Hals per i suoi prossimi resta eterna.
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