Dal 14 ottobre al 26 febbraio il Walker Art Center di Minneapolis ospita una vasta retrospettiva dedicata a Jannis Kounellis (1936-2017). È l’ultimo atto di Vincenzo de Bellis, autore del testo qui pubblicato, come curator and associate director of programs, visual arts presso il Museo americano, che ha lasciato per assumere il ruolo di director, fairs and exhibition platforms presso Art Basel.
Roma, 2005. Edicola Notte era un minuscolo spazio espositivo di un metro di larghezza e sette metri di profondità. Una vetrina che, nella sua forma, ricordava un’edicola votiva, da cui il suo nome. Era situata al numero 23 di vicolo Del Cinque, nel quartiere di Trastevere. Un piccolissimo luogo dal quale si guarda senza entrare e che, in vent’anni, con la supervisione dell’artista H.H. Lim, ha ospitato tanti artisti italiani e internazionali. Tra questi, dall’11 marzo all’11 aprile del 2005, Jannis Kounellis.
In quella circostanza vidi e conobbi Kounellis e la sua compagna Michelle Coudray per la prima volta. Per circa una decina di anni non abbiamo avuto occasioni di dialogo e di incontro personale. Poi ne è arrivata una, molto importante per me. Nel novembre del 2015 infatti ho presentato, presso la Triennale di Milano, «Ennesima. Una mostra di sette mostre sull’arte italiana». Non «una» mostra sull’arte italiana ma, letteralmente, una «mostra di mostre» che, attraverso sette rassegne, sette percorsi, cercava di esplorare gli ultimi cinquant’anni di arte contemporanea in Italia raccogliendo più di 120 opere di oltre 70 artisti dall’inizio degli anni Sessanta ai giorni nostri.
Dopo aver conosciuto meglio Kounellis in quest’occasione e avendo notato quanto aperto fosse al dialogo con le generazioni successive alla sua, nonché interessato alla lettura che queste hanno del suo lavoro, scevro dal retaggio politico e sociale così carico come quello nel quale le opere degli anni Sessanta e Settanta erano nate, è stato immediato proporgli la realizzazione di una mostra al Walker Art Center di Minneapolis, un museo che possiede due sue opere in collezione, e soprattutto a così tanti anni di distanza dalla sua unica mostra in un museo negli Stati Uniti, al Museum of Contemporary Art di Chicago nel 1986.
All’inizio l’idea verteva su una retrospettiva di tutte le sue azioni performative (da cui il nostro primo incontro lavorativo), quelle ad oggi ripetibili, ma purtroppo con la scomparsa dell’artista questo progetto è stato messo da parte, optando per una mostra più comprensiva. Ma come farla?
Se, infatti, davvero si vuole rispettare l’opera di Kounellis, non si può prescindere dal fatto che se in generale noi intendiamo l’opera d’arte e la mostra come due cose separate, nel caso di Kounellis spesso queste erano la stessa cosa. Le opere di Kounellis sono a volte così direttamente legate al luogo della loro esposizione che è quasi impossibile trasferirle in altri ambienti.
Per Kounellis le mostre sono sempre state uno stimolo, una ragione e un incentivo per l’azione creativa e molto spesso le sue mostre sono il risultato di allestimenti di opere riconfigurate per l’occasione in rapporto al luogo, inteso come ambiente e come spazio. L’insieme diventava allora l’opera, anche se composta di tante parti e di singole opere. Ovviamente questo approccio sarebbe stato impossibile, come impossibile sarebbe stato ricreare quelle composizioni da lui realizzate nelle mostre precedenti perché anche in questo caso lui non avrebbe mai replicato qualcosa di già fatto, perché lo spazio, secondo il suo pensiero, avrebbe richiesto qualcos’altro.
Allora si è deciso di realizzare una mostra che è più una «introspettiva» che una retrospettiva, e si avvicina all’esperienza dell’arte di Kounellis attraverso diversi temi che ricorrono in tutta la sua lunga carriera. Il titolo «Jannis Kounellis in Six Acts» trae origine dal teatro greco antico (prologo, parodos, agone, parabasi, episodi, esodo) e rende omaggio alla relazione di Kounellis con la drammaturgia.
Gli «atti» qui presentati, tuttavia, non seguono una particolare struttura strettamente legata al teatro, piuttosto si presentano come mostre all’interno della mostra. In quanto tali, suggeriscono diversi obiettivi attraverso i quali leggere l’opera dell’artista in tutta la sua carriera. Lo fanno attraverso la giustapposizione di opere provenienti da tutte le decadi di produzione dell’artista, configurandosi di volta in volta come stanze retrospettive all’interno
della retrospettiva.
Linguaggio, Viaggio, Frammento, Natura, Musicalità e Ripresa sono i temi che abbiamo individuato con l’Archivio Kounellis e l’Estate of Jannis Kounellis, e sono solo alcuni dei tanti che avremmo potuto scegliere. Essi provengono dalle stesse parole dell’artista, parole che si ritrovano anche nel grande catalogo che è stato prodotto per l’occasione, all’interno del quale non solo sono presenti estratti inediti di testi di Kounellis ma anche una completa rilettura della sua opera da parte di quattro critici di una nuova generazione: Ara H. Merjian, Kit Hammonds e Claire Gilman, oltre al sottoscritto.
La mostra, con le sue 50 opere di cui cinque totalmente inedite e la riscoperta di un’azione performativa realizzata esattamente cinquant’anni prima e mai più successivamente ripresentata, ambisce a portare il lavoro di questo gigante dell’arte del XX secolo nel futuro e per farlo vuole sottolineare la centralità dell’opera, la sua attualità e la sua atemporalità.
Infatti le opere di Kounellis si basano sull’esperienza, poiché offrono un modo di mettere il mondo e noi stessi in relazione gli uni con gli altri. In lui non c’è mai stato spazio o interesse per una consecutio temporum, per un prima e un dopo, laddove questo «dopo» è sempre il risultato di ciò che è accaduto prima. La sua opera elabora piuttosto che giungere a conclusioni. Chi lo ha conosciuto, chi ha collaborato con lui e chi ha visitato le sue mostre all’epoca in cui egli le ha realizzate, ha avuto il privilegio di essere partner e partecipante del suo atto di creazione, in un processo che presenta la vita ma non la rappresenta.
Per questo per rendere omaggio al suo lavoro dobbiamo e dovremo rispettare il suo desiderio di essere sempre aperto al cambiamento. Per Kounellis la nozione di essere, prima di tutto, veramente contemporaneo, si fonda su un’idea circolare di et-et (e-e) invece di aut-aut (o-o), perché, come diceva con puntualità e precisione: «Un’opera non è mai riproposta, parla sempre la lingua del presente».
La prima volta da Ileana: la performance ritrovata
Tra il 7 e il 21 ottobre del 1972 Jannis Kounellis realizza la sua prima personale in assoluto negli Stati Uniti presso la Galleria Sonnabend. La mostra era composta da quattro opere che ora definiremmo azioni performative. Una di queste era stata concepita per l’occasione. Si trattava di «Senza Titolo» (1972), un lavoro composto da due casse di ferro, poste a un paio di metri di distanza, con un angolo di 45 gradi in modo che potessero leggermente «guardarsi».
Il box di sinistra aveva una tenda e degli specchi; quello a destra delle mensole e degli spartiti incisi nel ferro. All’inaugurazione della mostra, a intervalli regolari, questi box venivano attivati da un’azione: in quello di sinistra Kounellis stesso si presentava fermo con il volto coperto da una maschera di gesso rappresentante una statua classica, mentre nel box di destra il flautista americano e compositore Jon Gibson suonava un frammento de «Il flauto magico» di Mozart (1791).
Mentre le altre tre opere sono state successivamente mostrate più volte, nulla si è saputo di quest’ultima per cinquant’anni. Si era persa traccia degli elementi, e pertanto si considerava questo un lavoro definitivamente scomparso «in modo naturale». Senza drammi. Durante le ricerche che ho effettuato per la mostra «Jannis Kounellis in Six Acts» ero arrivato a un momento di esasperazione curatoriale.
Volevo che la mostra avesse almeno alcuni degli elementi da cui era nato l’invito originale, ovvero realizzare una retrospettiva delle azioni performative, e al tempo stesso volevo mantenere fede a una promessa che ci eravamo fatti con Germano Celant, ovvero che la retrospettiva sarebbe stata profondamente diversa nelle opere e negli assunti dalla sua, meravigliosa, realizzata nel 2019 alla Fondazione Prada di Venezia.
Questo sono riuscito a farlo, tanto che solo tre opere su 50 sono presenti in entrambe. Nella parte performativa volevo assolutamente un’opera diversa da quelle presentate nel 2019, ma ahimè una, appunto, era data per scomparsa, altre non erano realizzabili senza la supervisione di Kounellis e un’altra non avrebbe potuto viaggiare per motivi di conservazione.
Allora ho chiesto, direi implorato, la Fondazione della Collezione Sonnabend di controllare se avessero notizie di quell’opera del 1972 che mai più era stata replicata. Dopo numerose risposte negative, un giorno mi è arrivata la notizia che alcuni degli elementi, in particolare le casse di ferro, erano state trovate in un magazzino.
Questo non sarebbe stato sufficiente, perché l’Estate of Jannis Kounellis non permette la ricostruzione di alcun elemento che non fosse già originariamente realizzato quando l’artista era in vita. In altre parole, oltre ai box di ferro, senza gli originali di maschera, tenda e specchio, l’opera non potrebbe più esistere.
Dopo qualche settimana e con numerose pressioni da parte mia, mi viene comunicato che anche la maschera, la tenda e gli specchi erano stati ritrovati in un angolo remoto dello stesso magazzino, etichettati come «materiali indistinti».
Da quel momento con un grande lavoro di raccordo tra la Fondazione della Collezione Sonnabend, proprietaria dell’opera, l’Archivio Kounellis e l’Estate of Jannis Kounellis, abbiamo decretato l’ufficiale riscoperta di quest’opera che viene ripresentata per la prima volta in occasione dell’attuale retrospettiva di Minneapolis con la meravigliosa coincidenza del cinquantesimo anniversario della sua prima e unica presentazione: 7 ottobre, 1972-13 ottobre, 2022. Questo tramuta l’opera in un suggestivo ponte tra la prima mostra in assoluto di Kounellis negli Usa e questa prima grande retrospettiva americana dopo la sua scomparsa.