Jasper Johns è allo stesso tempo il camaleonte e il colosso dell’arte americana del dopoguerra. In una carriera dinamica, ora nel suo settimo decennio, il novantunenne Johns ha sviluppato una serie di motivi in costante mutamento che ha sfruttato in ogni mezzo espressivo, arrivando a ottenere aggiudicazioni in asta senza precedenti per un artista vivente e a guadagnarsi un posto d’onore in ogni collezione d’arte contemporanea che si rispetti.
Ponendosi spesso al di fuori delle principali tendenze artistiche, Johns ha spaziato dalla Pop art all’astrattismo, per poi tornare all’arte figurativa, rivisitando iconografie e tecniche più antiche per ricombinarle in modi nuovi. I critici d’arte hanno a lungo cercato di comprendere se ci fosse un significato più profondo, al di là della meraviglia dell’accumulo.
Ma sarà l’enorme quantità della produzione di Johns ad essere esposta quest’autunno come mai prima d’ora, quando due musei statunitensi di primo piano, a distanza di cento miglia, uniranno le forze per costruire la più grande retrospettiva della sua opera mai organizzata. «Jasper Johns: Mind/Mirror» inaugurerà il 29 settembre al Whitney Museum of American Art di New York e al Philadelphia Museum of Art, in quella che in realtà è un’unica mostra esposta contemporaneamente in due sedi e che includerà più di 550 opere in oltre mezzo acro di spazio espositivo.
Per certi versi, l’opera più celebre di Johns resta la sua serie degli anni Cinquanta di dipinti con la bandiera americana, alcuni dei quali saranno in mostra in entrambi i musei. La nuova esposizione è però ricca di rari prestiti internazionali e di opere dalla collezione dell’artista stesso, molte delle quali non sono mai state esposte al pubblico.
Verso la fine degli anni Sessanta, Johns ha iniziato a realizzare dei dipinti a più pannelli segnati da un motivo a bandiera e, entro l’inizio del decennio successivo, ha cominciato a usare un particolare motivo a tratteggio completamente astratto. Questo periodo raggiunge il suo apice nell’opera «Usuyuki» (1982), prestata a Philadelphia dal giapponese Museo d’Arte Moderna di Sezon e di ritorno negli Stati Uniti per la prima volta dopo quarant’anni.
Johns ha spesso rivisitato il tema della natura morta nella sua serie «Savarin», che mostra pennelli per dipingere in una latta di caffè. C’è un’eco spettrale di questa immagine in un disegno senza titolo del 2010 proveniente dalla collezione dell’artista, che mostra un vaso su un piedistallo, esposto al pubblico per la prima volta al Whitney.
La mortalità umana è sempre stata l’ossessione di Johns e una parte dei suoi lavori recenti usa immagini di teschi in modi piuttosto equivoci, che suggeriscono le più svariate interpretazioni dall’esplicitamente comico al sottilmente satanico. Una serie in cinque parti di dipinti di scheletri, conclusa nel 2019, sarà esposta per la prima volta a Philadelphia, in prestito dalla collezione della famiglia Forman, della stessa città.
La mostra è co-curata da Scott Rothkopf del Whitney e da Carlos Basualdo del museo di Philadelphia. Rothkopf ha spiegato che quella di esporre contemporaneamente in due luoghi diversi è stata un’idea di Basualdo. L’immensità dell’esposizione gli ha dato la possibilità di ripensare un artista su cui ha riflettuto per buona parte della sua vita adulta, rivelando la «capacità di reinventarsi» di Johns, afferma Rothkopf. «Quanto più esplori [le sue opere] maggiori risultano le differenze».