Federico Florian
Leggi i suoi articoli«Guardare da vicino, puntare lo sguardo verso il basso, trovare interesse in quel che si ritiene muto, in una percezione del mondo non logocentrica e tuttavia non priva dell’elemento narrativo». Con queste parole l’artista e filmmaker greca Janis Rafa, classe 1984, riassume la propria sensibilità estetica, definita da due principi di fondo: uno sguardo non antropomorfo, diretto specialmente al mondo animale, e l’assenza quasi totale del linguaggio, o almeno quello parlato da noi umani. Rafa è un’artista raffinata, la cui arte miscela magistralmente la seduzione dell’immagine in movimento con una qualità profondamente perturbante, e alla quale l’Eye Filmmuseum di Amsterdam, il museo di cinema e videoarte sulla riva del lago Ij, dedica una mostra personale sino al 7 gennaio 2024.
Uno dei primi lavori ad accogliere i visitatori è un corto di venti minuti in cui la macchina da presa segue il padre dell’artista mentre percorre in bicicletta un paesaggio collinare arido e desolato. L’uomo indossa una pesante pelliccia; pala e piccone gli spuntano dal portapacchi della bici. Giunto a destinazione, comincia a scavare: sarà in questa fossa che seppellirà l’opprimente indumento. A ispirare il lavoro è un aneddoto familiare. Quando Tassos Rafailidis (il padre di Rafa) ereditò la pelliccia della madre, dichiarò che con essa poteva farci soltanto una cosa: seppellirla. «Father gravedigger» (2013) è il primo film in cui Rafa coinvolge una vera e propria équipe cinematografica, e in cui il ritmo lento e una certa qualità surreale definiscono la cifra stilistica dei lavori successivi.
Da presenze attive, come quella del padre che scava la fossa, i personaggi umani ricoprono un ruolo sempre più marginale nei film successivi dell’artista. «Requiem to a Fatal Incident (Requiem #2)» (2015) è il breve racconto distopico, girato in un’unica ripresa di cinque minuti, di un incidente che coinvolge un carico di bestiame in una periferia urbana. Il punto di vista è quello di un uomo al volante, il quale scende dall’auto per ispezionare la scena del sinistro, rivelandola così anche a noi spettatori: un furgone rovesciato a bordo strada e attorniato da cadaveri di maiali. Gentilmente la macchina da presa prende il volo, offrendoci uno sguardo a volo d’uccello. L’uomo ora ci appare piccolo, impotente, e l’esplosione di fuochi d’artificio dell’epilogo enfatizza il carattere soprannaturale della narrazione.
Della stessa serie, ma di sei anni successivo, è il film dal titolo «If I Ever Get a Monument Chickens Will Do It For me (Requiem #3)» (2021). È una moltitudine di polli, stipati in un capannone industriale, a riempire l’inquadratura. Una banda di uomini in divisa, anonimi e silenziosi, entra lentamente in scena ed esegue una marcia funebre: un’ode melanconica e simbolica che Rafa dedica a questi animali, le vittime di un massacro quotidiano (150 milioni dei quali, difatti, vengono mandati al macello ogni singolo giorno).
«Lacerate» (2020), inclusa nella Biennale di Venezia del 2022, è una revenge story senza dialoghi o parole. Qui Rafa imbastisce una sottile correlazione tra violenza femminile e la pratica prevalentemente maschile della caccia, suggerendone la comune origine: la tossica tradizione del patriarcato. Nato da una libera reinterpretazione del dipinto «Giuditta che decapita Oloferne» di Artemisia Gentileschi, il film è ambientato in una casa fatiscente abitata da un branco di cani irrequieti, da trofei di caccia e dal cadavere di un uomo. Un afflato di morte e una sensibilità squisitamente barocca si intrecciano in uno strano e domestico tableau vivant, nel quale la figura di una donna (l’unica presenza umana vivente) si erge a simbolo di una rinnovata e florida relazione con il mondo animale.
Due i nuovi lavori in mostra. In «The Space Between Your Tongue and Teeth» (2023), una videoinstallazione a tre canali, il vocabolario cinematografico di Rafa abbraccia quasi letteralmente l’erotismo. Girato in una struttura per l’addestramento dei cavalli, l’artista esplora la linea sottile tra amore e cattività, controllo e consenso inter-specie. Riprese di cavalli su macchinari d’addestramento si alternano a inquadrature di lottatori e uomini senza veli, impegnati a lavare gli animali. I cavalli vengono ritratti come oggetto di cure non richieste, le vittime silenti di un amore nocivo. Realtà e immaginazione si confondono l’una nell’altra, plasmando un racconto sexy e sinistro al tempo stesso, in ambientazioni tinte dai toni del rosso e del petrolio.
Nel film «Landscape Depressions» (2023), invece, Rafa impiega per la prima volta una voce fuori campo: sono le parole dello scrittore Aristide Antonas, che racconta la storia della creazione di un lago artificiale in una regione della Grecia settentrionale. Il video, in cui si alternano immagini di dipinti di paesaggio con riprese del sito, innescano una riflessione sul rapporto tra natura e cultura, tra l’uomo e la terra, svelando la componente d’artificio che informa le nozioni di «bucolico» e «pittoresco». Il calmo e rigoglioso paesaggio che circonda il lago, nato da un intervento radicale ma invisibile quale la costruzione di una diga, è punteggiato da uomini e donne inermi e addormentati: metafore, a detta dell’artista, «della nostra attitudine passiva nei confronti del cambiamento climatico o di una vendetta della natura sull’umanità».
Oltre a una serie di scritte al neon (forse l’intervento meno riuscito della mostra), punteggiano lo spazio espositivo un gruppo di tre minacciose sculture d’acciaio («An investment in the durability of the system», 2023), concepite ad hoc per il museo olandese. Si tratta di divisori utilizzati nei pollai industriali, ma impilati verticalmente: un monito alla barbarità delle pratiche di allevamento; ma anche, in un ipotetico scenario post umano, gabbie vuote per un’umanità tenuta in cattività.
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