Image

«Autoritratto truccato da femmina» (2007) di Jacopo Benassi (particolare)

Cortesia di Francesca Minini, Milano

Image

«Autoritratto truccato da femmina» (2007) di Jacopo Benassi (particolare)

Cortesia di Francesca Minini, Milano

Jacopo Benassi: amare la fotografia vuol dire riuscire a rinunciarci

L’artista spezzino racconta l’evoluzione del suo approccio artistico, partendo dalla sua ultima mostra, ora in corso a Torino, e in vista della sua prossima personale, in programma a settembre a Milano nella galleria Francesca Minini    

Rica Cerbarano

Leggi i suoi articoli

Jacopo Benassi è libero. Lo si percepisce visitando la sua ultima mostra «Autoritratto Criminale», in corso alla GAM- Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea di Torino fino all’1 settembre, con la curatela di Elena Volpato. E lo si percepisce ascoltandolo, mentre racconta il processo graduale che lo ha portato fino alla rinuncia più totale: la scelta di occultare le sue fotografie. Un processo ancora in corso, che chissà dove lo porterà in futuro.

Nato a La Spezia nel 1970, Jacopo Benassi è senza dubbio uno degli artisti contemporanei più interessanti nel panorama italiano. Definirlo fotografo ormai è riduttivo. La sua è una ricerca profonda e spontanea, un flusso di impulsi viscerali ed eterogenei che lo trascinano continuamente oltre. Oltre la fotografia, oltre la perfezione, oltre le aspettative.

In attesa di una sua mostra personale che si terrà a settembre a Milano presso la galleria Francesca Minini, dove esporrà un nuovo progetto speciale a cui sta lavorando in questi mesi, abbiamo fatto una chiacchierata con l’artista.

«Adolf Hitler-Museo delle cere di Londra» (2000) di Jacopo Benassi. Cortesia di Francesca Minini, Milano. Foto Giorgio Perottino

Visitando la sua ultima mostra, stupisce la quasi totale assenza di fotografie. Molte sono celate allo sguardo, nascoste sotto strati di materia, come vetri e cornici. Perché ha «rinunciato» alle immagini?

Tutta la mia vita di fotografo è sempre stata all’insegna della rinuncia. Prima di tutto, a causa del flash ho dovuto spesso rinunciare a fare delle «belle fotografie». E poi, la rinuncia c’è stata anche nel modo di fotografare, comportandomi come un fotoreporter di guerra vecchio stile, che quando scatta ha poco tempo per decidere. Oggi, sono arrivato a rinunciare anche all’atto di mostrare le fotografie. Le persone hanno ormai un collegamento immediato con milioni di immagini attraverso i social. Non c’è la possibilità di avere un’opinione veramente libera, di pensare a che cosa si è visto senza paragonarlo immediatamente a qualcos’altro. Alla luce di ciò, voglio che la gente torni a riflettere su che cosa c’è dietro le immagini, anziché limitarsi a osservarle.

 Sembra proprio che lei abbia deciso di «liberarsi della fotografia». Quando è cominciato questo percorso?

«Matrice», la mostra di La Spezia a cura di Antonio Grulli, è stata sicuramente un punto di partenza. Sono tornato nella mia città natale, e ho dato il via a una linea di lavoro che mi ha aperto nuove visioni e che ha stupito anche me stesso. Ho lavorato per tre mesi all’interno di un gigantesco «utero» che ho creato per la mostra, dove le figure umane erano totalmente assenti. Questo non perché volessi generare un’atmosfera post-atomica, ma la mia idea era di ripartire da zero mettendo al centro la natura. Natura che non si ferma, che avanza e che chiede all’uomo semplicemente di badarla, senza consumarla. In questa occasione mi sono sentito libero di agire senza avere la paura di sbagliare. Prima di questo c’è stata la mostra al Centro Pecci, la mia prima volta in un museo. Ero insicuro, non ero ancora pronto a rinunciare a esporre fotografie, che erano la mia certezza. Da lì però è nata la voglia e la necessità di coprire le immagini, di lavorare sul concetto di stratificazione.

Veduta della mostra «Autoritratto Criminale» di Jacopo Benassi. Foto Giorgio Perottino

Da un po’ di tempo lei ha introdotto anche l’utilizzo di altri linguaggi nella sua pratica, avvicinandosi di più all’arte contemporanea. Come è successo?

Sono arrivato ad adottare un approccio più simile all’arte contemporanea in età matura. Questo è stato un vantaggio perché ero più sicuro di me stesso, ero a un punto di maturazione giusto per creare un mondo mio, un mondo che magari da giovane avrei rischiato di rovinare. La fotografia però è sempre l’elemento centrale: non farei mai una mostra di soli disegni, dipinti o sculture. Continuo a guardare il mondo scattando in bianco e nero, sempre con il flash. A partire da questa certezza ho cominciato a fare degli interventi aggiuntivi, a portare la fotografia anche dentro un altro mondo. Fondamentale è stato il confronto con Francesca Minini, con loro sono cresciuto tantissimo. Inoltre ora lavoro anche con mai36 di Zurigo, dove avrò una personale a gennaio 2025.

Negli ultimi anni le cornici sembrano essere diventate un dispositivo fondamentale nelle sue installazioni. È così?

A volte penso che nel futuro farò solo mostre di cornici! A parte gli scherzi, è andata così: c’è stato un periodo della mia vita, in cui facevo cornici con materiali riciclati e cercavo di perfezionarle continuamente. Negli ultimi anni, ho capito invece che dovevo perfezionare la mia imperfezione: non ho più cercato di migliorare il mio lavoro. Da quel momento, le cornici sono diventate vere e proprie sculture. Non mi interessa padroneggiare la tecnica. Io sono quello che sono, in tutto ciò che faccio. Lo stesso succede anche nelle performance, dove inizialmente, seguendo la tradizione, eseguivo movimenti specifici, quasi recitavo una parte. Poi ho scoperto una frase di Trisha Brown, una coreografa americana, che dice «anche cadere è danzare». Queste parole sono diventate un mantra per me

Benassi, mi viene naturale chiederle: che cosa succede quando si ama troppo la fotografia?

Non si riesce a lasciarla andare, che è quello che succede ai fotografi. La amano troppo, alla follia. Ma amare la fotografia vuol dire anche riuscire a rinunciarci, smettere di amarla… Per portare le persone a interrogarsi.

«Serie di ritratti appesi» (2024) di Jacopo Benassi. Cortesia di Francesca Minini, Milano. Foto Giorgio Perottino

Rica Cerbarano, 14 maggio 2024 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

Da Marsiglia alla Sardegna, negli ultimi cinque anni l’artista visiva ha celebrato le aspirazioni delle persone attraverso il pane rituale, la fotografia e l’ascolto

Succede in Italia ogni estate dal 2012 grazie all’idea visionaria di William A. Ewing e Mario Santoro-Woith: 12 esperti internazionali si incontrano per parlare dell’ottava arte

La manifestazione, alla sua seconda edizione, riflette sul tema «Terra Madre» attraverso 11 mostre e una commissione speciale a Lisa Sorgini sulle madri del quartiere di Tamburi

In un libro di La nave di Teseo il critico ripercorre la portata rivoluzionaria di un libro «collettivo» di quarant’anni fa («Viaggio in Italia»), ideato dal grande fotografo emiliano e che coinvolgeva, oltre allo stesso Ghirri, Barbieri, Basilico, Chiaramonte, Cresci, Guidi e Jodice, un progetto unico nella storia della fotografia

Jacopo Benassi: amare la fotografia vuol dire riuscire a rinunciarci | Rica Cerbarano

Jacopo Benassi: amare la fotografia vuol dire riuscire a rinunciarci | Rica Cerbarano