È da trent’anni ormai, da quando nel 1994 l’allora Banca Popolare di Brescia (oggi Gruppo UniCredit) lo acquistò e lo depositò alla Pinacoteca Tosio Martinengo, che il «Giovane con flauto (Il flautista)» di Giovanni Gerolamo Savoldo (Brescia, 1480-85 ca-Venezia?, post 1548) è conservato a Brescia. Ma prima, intrigante com’è, in tanti passaggi di proprietà era transitato per Parigi, Londra, Firenze e New York. Ora, in vista della mostra che Fondazione Brescia Musei dedica a «Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo. 1512-1552» (nel Museo di Santa Giulia, dal 18 ottobre al 16 febbraio 2025), e grazie a UniCredit, che è diventata Art Conservation Partner di Fondazione Brescia Musei, il dipinto è stato sottoposto a un sapiente restauro, condotto da Carlotta Fasser, che per le indagini diagnostiche si è avvalsa della consulenza del Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale.
L’intervento ha rivelato l’attenzione dedicata dal grande maestro allo sguardo del giovane suonatore, che ora appare non solo melanconico ma addirittura prossimo al pianto, riconfermando l’appartenenza della tela al genere (molto amato dalla migliore committenza veneta dei primi decenni del XVI secolo) del ritratto «amoroso», scaturito dalla fortuna degli Asolani di Pietro Bembo, dove musica e poesia erano considerate il veicolo privilegiato del sentimento d’amore. È esattamente ciò che Savoldo mette in scena in questo dipinto dove, sul foglio appeso al muro e sul libro aperto di fronte al musico, sono stati riconosciuti i versi dell’anonimo sonetto «O morte? Hola!», messo in musica dall’ecclesiastico veneto Francesco Santacroce, probabilmente conosciuto di persona da Savoldo (come suggerito da Francesco Frangi) quando il musicista era maestro di cappella a Treviso. Sappiamo del resto che Savoldo frequentò molti musicisti, tanto che è stato ipotizzato che lui stesso lo fosse: non a caso in questo dipinto la sua firma («Joan[n]es Jeronimus Savoldis De/Brisia/Faciebat») è stata tracciata sullo spartito.
Il dipinto, prima attribuito a Giorgione ma riconosciuto come opera di Savoldo nel 1894 da Constance Jocelyn Foulkes, è stato assegnato da molti importanti studiosi a una data vicina al 1525, per la vicinanza ai ritratti di quegli anni di Lorenzo Lotto. Ora, con il restauro, la preziosa ricerca luministica condotta dal suo autore (importante predecessore di maestri come Caravaggio e Vermeer) e la raffinatezza cromatica da lui messa in campo hanno ritrovato la loro qualità originaria, specie nel color indaco della veste, così vicino alle cromie fredde (tipiche della pittura bresciana del tempo) della sua grandiosa «Pala di Pesaro» (1524-25, Pinacoteca di Brera), anch’essa sottoposta a un recente restauro. Mentre la ricchezza dell’abbigliamento dell’effigiato e la presenza del flauto dritto danno conto del livello sociale e culturale dei committenti di Savoldo: figure molto abbienti e altrettanto colte e aggiornate, dal momento che (come spiega Nicola Turati nella documentatissima scheda del dipinto) gli intellettuali veneziani consideravano il flauto dritto lo strumento per eccellenza della musica pastorale, allora tanto in voga da stimolare la pubblicazione a Venezia, nel 1535, di un apposito manuale, intitolato La Fontegara.
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