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Castello di Montefiore Conca

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Castello di Montefiore Conca

In viaggio tra i castelli, le pievi e i teatri della Romagna

Il territorio riminese, solo in parte nascosto dalle costruzioni per il turismo di massa, conserva uno straordinario patrimonio, diffuso in paesaggi rurali ben conservati. Bisogna girare per valli e colline, a partire dagli affreschi trecenteschi di Villa Verucchio

Giovanni C.F. Villa

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È certamente benedetto il cellulare che padre Federico, nel settembre 2021, cala dietro un dossale del coro ligneo dei frati, per ispezionare un cavo elettrico e cercare una presa. Il breve video ottenuto non solo svela i problemi di corrente ma mostra una nicchia da secoli dimenticata. Al suo interno, leggibilissimo e potentemente emotivo, appare il volto di un Vir Dolorum. Così ha inizio, nel Convento francescano di Santa Croce di Villa Verucchio, un’avventura di ricerca, di emozioni, d’arte, di storia coordinata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini. Quell’immagine del Cristo disceso dalla Croce è la traccia iniziale di un ciclo, ora parzialmente rivelato, dedicato alle vicende e ai miracoli del santo. Quel visibile parlare che ancora sappiamo ascoltare, e di cui possiamo commuoverci, compiuto dai Maestri abbagliati e totalmente coinvolti dalle soluzioni proposte nella città di Rimini dal rivoluzionario sceso dai crinali appenninici ripercorrendo proprio le strade di san Francesco: Giotto di Bondone che, già sconvolgente per novità ad Assisi, si ferma a Rimini per ornare la chiesa poi mutata e ristrutturata secondo un altro modello culturale, ora il Tempio Malatestiano. I pittori attivi a Rimini e dintorni, fra cui Pietro e Giovanni e Giuliano, ragionarono a lungo sul significato radicalmente nuovo di una stesura a fresco naturalistica ed espressiva, rivitalizzante tutto ciò che s’era appreso dalle figurazioni a Ravenna, da tutta la lezione plastica bizantina, dai bagliori delle luci d’Oriente che muovevano le arti della costa italica del Golfo di Venezia. 

Quella di Villa Verucchio è una scoperta rilevante, che contribuisce alla conoscenza di una pittura, quella riminese, che coinvolgeva un ampio contado: da Santarcangelo alle valli del Conca e del Marecchia e poi su fino al Montefeltro, a Talamello. Per un viaggio che ha nel convento di Villa Verucchio la testimonianza tuttora viva del passaggio di san Francesco patrono d’Italia. È l’inesausta vitalità del plurisecolare cipresso che la tradizione vuole nato dal bordone del santo, qui in breve sosta nel 1213 nel suo andare verso San Leo. Le strade da lui percorse erano ancora quelle che avevano fatto di Rimini la prima colonia romana al limite estremo della pianura cisalpina. Un centro prestigiosissimo, punto d’arrivo della via Flaminia per congiungere, attraverso il passo del Furlo, Roma a Fano e Ariminum, e prima ancora punto di partenza della via Aemilia per Piacenza, e della Popilia verso Ravenna e Adria. Assi viari che attraversano ancora un territorio fatto di paesaggi rurali ben conservati, nelle conche vallive della pascoliana «Romagna solatia, dolce paese»: abbazie, a volte antichissime, come testimoniano i resti fascinosi di quella benedettina di San Gregorio a Morciano di Romagna, eretta pochi decenni dopo il Mille, o il paesaggio agreste intorno al Santuario di Valliano presso Monte Colombo. Ben 25 erano le pievi segnalate e documentate fino al Trecento, tutte dotate del fonte battesimale, quindi luoghi di formazione e ritrovo del «popolo di Dio». A cominciare dalla Pieve romanica della Trasfigurazione di San Salvatore, di fondazione longobarda, per poi ricordare quelle di Coriano, Savignano, Corpolò, Saludecio, Montecolombo...

Una porzione degli affreschi trecenteschi scoperti nel Convento francescano di Santa Croce di Villa Verucchio (Ri)

Se volessimo ancora usare le parole ormai fruste e usurate di «narrazione» o «territorio», «ambiente» o «patrimonio», nella Rimini di acque e terra troveremmo la materia adatta. Poiché il borgo di Verucchio, arroccato sopra Villa Verucchio, ha nella Rocca del Sasso, il luogo della forza e del potere di Sigismondo Pandolfo, l’erede del Malatesta II, il «Mastin Vecchio» dantesco che era di tale ferocia da essere accusato di usare come succhielli da falegname i denti dei nemici: «E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio, che fece di Montagna il mal governo, là dove soglion fan d’i denti succhio» (Inferno, XXVII). L’orrido particolare è usato dal poeta che delle storie dei Malatesta e di Rimini molto aveva saputo, prima ramingo poi ancora esule a Ravenna, e che aveva trasformato la cronaca nera del tempo nell’immortale scena d’amore di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini. Storie contemporanee, vicinissime all’Alighieri riecheggianti due secoli di dominazione malatestiana che faranno di Rimini uno dei centri della politica della penisola, con Sigismondo capace pure di lasciare una ben dotata eredità culturale, nel pieno recupero della monumentalità romana: quell’Arco di Augusto e quel ponte di Tiberio che, accuratamente studiati da Leon Battista Alberti, motiveranno le forme del suo Tempio

I Malatesta lasceranno un segno indelebile anche nel territorio con rocche, castelli di origine antica e torri da ogni parte visibili spesso con «l’azzurra vision di San Marino». In primis, ovviamente, Castel Sismondo, in città, ma poi il borgo di Mondaino, il castello di Montegrifoldo, quelli di Albereto, Torriana. Castelli di origine antica, anche ben precedenti il dominio malatestiano che li adattò. Da quei secoli di dominio signorile, anche violento e lacerante, i riminesi e i romagnoli «da basso» trarranno anche una loro tradizione di accanite rivalità e accidiosi scontri politici che si manifesteranno poi, dopo l’effimero e pure emblematico «Proclama di Rimini» di Gioacchino Murat del 1814 (il tentativo estremo del re di Napoli di restaurare un regno) in un accanito e anticlericale risorgimento astioso e garibaldino, figlio di Une nuit de Rimini: è il 1831 e nella sua requisitoria Mazzini invita gli italiani a liberarsi da ogni tirannide. Per la città è il preludio alla rivoluzione del 23 settembre 1845, Gli ultimi casi di Romagna di Massimo d’Azeglio, la rivoluzione di Pietro Renzi di cui resta ben pallida memoria. Scivolando rapidi in un repubblicanesimo sviluppato nel socialismo anarchico dei comunardi locali o nella tradizione dei circoli di «Forza e Coraggio», eredità estrema di quella che fu la terra di leva dei soldati di ventura e dei contadini ribelli. Tempi passati. 

Una veduta del Tempio Malatestiano di Rimini

Oggi il territorio riminese è come nascosto e dimenticato, tagliato fuori dall’asse autostradale, obliterato dalla parete edificata per decine di chilometri e affacciata sul litorale sabbioso, divorato, compartito, frantumato dal turismo. La città distrutta dai bombardamenti per indebolire quella «Linea gotica» che faceva perno proprio su Rimini e Pisa, è stata poi ricostruita con una rapidità, e un’invadenza, che però le hanno portato quella ricchezza necessaria ai restauri, recuperi, rifacimenti, abbellimenti che ancora garantiscono il suo patrimonio culturale. Il culto balneare, che riscopre il vasto arenile e le dune fuori città, data dalla metà Ottocento, quando Rimini prende coscienza di una posizione geologica del tutto eccezionale (al centro dell’insenatura che dalla pineta di Cervia giunge alle pendici di Gabicce) e diventa espressione di una borghesia padana affascinata dall’igiene dell’«idroterapia» difesa e illustrata da medici dell’epoca come Mantegazza e Murri; e poi sarà ancora formazione fisica, ginnastica giovanile nelle colonie del Ventennio, e infine turismo balneare diffuso e internazionale dagli anni ’50 del Novecento. 

È necessario superare l’incredibile muraglia edificata sul litorale (tale apparve già allo stranito Fellini ritornando a Rimini nel dopoguerra, e ovviamente a Tonino Guerra rifugiato a Pennabilli) per risalire le valli di un entroterra così ricco e variato da poter essere, ancora, scoperto e riscoperto. E lo si può fare quando soffia un protagonista delle estati riminesi, con una personalità individuale da nominare con le maiuscole: il vento Garbino. Inutile indicarlo come libeccio, e definirne l’identità meteorologica, è il vento dei pazzi, il vento malignazzo, subdolo e beffardo, che rende irritabili e, a dir poco, mutevoli. Quando arrivava («C’è Garbino», avvisava la mia, come tante altre nonne romagnole), mio padre lietamente non mi portava in spiaggia, impraticabile per giochi o riposi. Si andava invece per rocche e torri, pievi e castelli, borghi e mura e teatri: a Montefiore Conca, ammiratissima per la scarpata muraria perfetta e la geometria cristallina, dove c’era una bottega di vasaio che ripeteva gesti e realizzava forme di secolare tradizione; alla Rocca di San Leo per l’alchimista Cagliostro; a Santarcangelo di Romagna (Santarcànzal in romagnolo) per la merenda di cascioni e il mangano della Stamperia Marchi, con il suo patrimonio di peri intagliati e impastati a ruggine; a Sant’Agata Feltria e Novafeltria in quei teatri che sono delle formidabili casse armoniche lignee capaci di echeggiare un secolo d’operetta in spazi minuti d’evocazione fiabesca e i cui colori riportavano alle oniriche giostre e cavalieri che animano le pitture murali di Marcello Dudovich a Villa Amalia, a Villa Verucchio a una manciata di chilometri dai ritrovati affreschi trecentreschi. Anche così si sono formati un immaginario e un gusto. 

Spero che il vento Garbino continui a soffiare nelle estati, e a introdurre gli autunni riminesi, e spinga molti a conoscere un universo di bellezza del «Museo Italia», nell’invenzione verbale coniata dal riminese Antonio Paolucci per definire l’intima unità del paesaggio italiano: «La bellezza storica e artistica è pervasiva, entra in ogni piega del territorio, occupa ogni strada della città. Il museo da noi fuoriesce dai suoi confini, è dappertutto».

Una veduta dall’alto di Piazza Maggiore di Mondaino (Ri)

Giovanni C.F. Villa, 20 settembre 2024 | © Riproduzione riservata

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