«Quando si capiva Matisse sembrava necessario disprezzare Dalí», scrisse William Wilson, il critico di «Time», quando il 23 gennaio 1989 Salvador Felipe y Jacinto Dalí si spense, a 85 anni, nella sua Figueres, in Catalogna. All’epoca in cui Wilson scriveva quel necrologio, qualcosa cominciava a sgretolarsi intorno alla figura di Dalí come grande indesiderabile dell’arte moderna.
Nel 1990 Kirk Varnedoe inaugurava la sua carriera al MoMA con la mostra «High and Low: Modern Art and Popular Culture». Era una di quelle rassegne che sancivano quel progressivo azzeramento delle gerarchie disciplinari ed estetiche ai cui effetti assistiamo ancora oggi. Ed era un altro frutto (avvelenato o terapeutico a seconda dei punti di vista) del Postmodernismo. Anche questo ha contribuito alla riscoperta e alla rivalutazione di Dalí. Oggi lo ritroviamo ovunque, persino nel versante iperrealista-visionario della Street art.
«A quasi 100 anni dal Primo Manifesto del Surrealismo di André Breton (1924), il Surrealismo non è mai stato così visibile», ha scritto Jane Morris su «Apollo» il 27 marzo scorso. Alle aste di febbraio le opere surrealiste hanno ottenuto eccellenti risultati, ma il fenomeno non riguarda soltanto gli artisti storicizzati: «Un numero crescente di artisti contemporanei sembra esserne stato influenzato», come nel caso di Shara Hughes, 42enne statunitense, stilisticamente una daliniana di strettissima osservanza. Le cause delle rinnovate fortune del Surrealismo potrebbero ora avere qualche sinistra analogia con l’epoca in cui il movimento di Breton iniziò a prendere forma, dopo l’epidemia di influenza del 1917-18 e le devastazioni della prima guerra mondiale.
Intanto una corposa retrospettiva di Dalí è in corso sino al 12 giugno all’Art Institute di Chicago, che per la prima volta concede il palcoscenico principale all’artista catalano. Il pubblico sta rispondendo con il consueto entusiasmo, perché Dalí, come ha scritto nella sua recensione il critico Alan Pocard, «potrebbe essere l’unico artista che le persone che non sanno nulla di arte “ma sanno cosa gli piace” conoscono e probabilmente apprezzano». È suo, infatti, il record per la mostra di un artista vivente al Centre Pompidou, conseguito nel 1979, con più di 840mila visitatori.
Nella retrospettiva del 2012-13 nella stessa sede sono stati 790mila. Ma nel 1979 non c’erano ancora le restrizioni sull’accesso alle sale già in vigore dieci anni fa, altrimenti tutto lascia pensare che il record sarebbe stato battuto. Oggi la political correctness e la cancel culture stanno producendo effetti ben oltre i limiti del grottesco, ma per le persone che accorrono all’Art Institute i residui della damnatio memoriae critica e politica inflitta all’artista costituiscono casomai un motivo per accedere alla mostra con un pizzico di eccitante morbosità in più.
Coccodrilli squisiti
Secondo la giornalista e scrittrice Lauren Oyler, «è particolarmente grave cercare di separare la personalità e il comportamento di Dalí dai suoi dipinti, perché le sue opere sono esplicitamente connesse con la masturbazione e la necrofilia, tendenze dichiarate nella sua autobiografia. Temeva i genitali femminili (finché non incontrò la sua musa, Gala) e preferiva masturbarsi davanti a uno specchio». Crudele ai limiti del sadismo fin da piccolo, sempre secondo l’autobiografica Vita segreta (pagine in cui mitomania, verità e falsità si mescolano con il solo fine di costruire il suo personaggio), Dalí, secondo la scrittrice, lo era anche con gli animali: «Quando collaborò con Philippe Halsman per realizzare l’iconica foto “Dalí Atomicus”, il tutto richiese 28 tentativi, il che sarebbe stato normale se non fosse che ognuno di questi tentativi comportava il lancio di tre gatti in aria e di secchi d’acqua». E ancora: «Breton lo espulse dal gruppo surrealista perché, essenzialmente, sotto il profilo politico era uno stronzo: Dalí esprimeva simpatie per Hitler (…) In seguito il fascismo di Dalí fu conclamato: iniziò a venerare il dittatore Francisco Franco come “il più grande eroe della Spagna” e dipinse un ritratto di sua figlia a cavallo».
A Chicago sono esposte prevalentemente opere degli anni Trenta, il periodo migliore per Dalí. Non c’è «L’enigma di Hitler», il dipinto del 1939 in cui un ricevitore telefonico nero da cui stilla una goccia di sperma o di altra non identificata secrezione organica sovrasta un piatto contenente, fra l’altro, una foto del dittatore. Il quadro è rimasto al Centro Reina Sofía di Madrid, ma, censura permettendo, avrebbe sicuramente portato qualche migliaio in più di visitatori all’Art Institute. Intramontabile anche in Italia, Dalí è il protagonista di una nuova monografia curata da Francesco Poli e Anna Maria Merlo per le edizioni Il Sole24Ore, presso cui è da poco uscito anche Surrealismo, agile volume di Amy Dempsey.
La stessa casa editrice si è assicurata il catalogo della mostra «Dalí, Magritte, Man Ray e il Surrealismo. Capolavori dal Museo Boijmans van Beuningen», aperta sino al 30 luglio al Mudec di Milano, e pubblica l’immancabile graphic novel: ne è autore Hurricane e s’intitola Coccodrilli squisiti.Quest’ultimo è l’ennesima conferma del connubio tra Surrealismo e cultura popolare. Già nel 2004, nel centenario della nascita di Dalí, il mondo curatoriale puntava molto su questo tema, cui infatti era dedicata la grande mostra al Centro Reina Sofía. Un argomento che, da un lato, consentiva di recuperare un artista politicamente e stilisticamente ancora, all’epoca, improponibile, ma pur sempre, come s’è visto, una gallina dalle uova d’oro per il fatturato dei musei.
Da subito, del resto, non appena morto lo si era definito, su questo terreno, un precursore di Andy Warhol e di Jeff Koons. L’aristocratico figlio del notaio di Figueres (un padre-padrone, contraltare di una madre precocemente scomparsa) era, come si direbbe oggi, «trasversale», spaziando dal design (celeberrimi il telefono-aragosta o il divano Mae West modellato sulle sensuali labbra dell’attrice) alla moda (collaborò con Elsa Schiaparelli), dal cinema (con Buñuel e Walt Disney) alla collaborazione con riviste come «The American Weekly» e «Vogue», quest’ultima non tanto alla ricerca di un artista che «illustrasse» il mondo della moda, ma che conferisse alla testata, con opere che con la moda non avevano nulla a che fare, un’allure intellettuale.
Un artista già molto noto diventava così, sull’onda di tirature altissime, un fenomeno pop. In tutto ciò fu determinante il trasferimento, nel 1939, a New York. Anche per lui, su cui cadde l’anatema in forma di anagramma coniato da André Breton, «Avida Dollars», gli Stati Uniti furono una miniera d’oro. Pubblicizzò collant e vernici industriali. Ma oggi che parlare in un certo modo di collant e di vernici rischia di essere pericoloso in termini di rispetto per la femminilità e di sostenibilità ambientale, i curatori optano per questioni più sofisticate.
Certo, il «triangolo daliniano», costituito dalle residenze di Figueres (nel Teatro-Museo ideato dall’artista riposano, accanto a quelle della moglie, le sue spoglie mortali), Port Lligat e Púbol (quest’ultimo il castello acquistato per la venerata moglie-musa-modella come madonna e puttana-dark lady Gala, al secolo Elena Ivanovna Diakonova, sottratta al poeta Paul Éluard), sede della Fundació Gala-Salvador Dalí, continua ad accogliere i pellegrinaggi di turisti disposti a immergersi nella Dalineyland costruita dai due come teatro della loro assai teatrale vita (con punte di tragedia).
Ma a Chicago, esaurito il filone del pop daliniano, l’approccio è più scientifico. Qui si prendono sul serio i dipinti e li si esamina come lo si farebbe in un periodo in cui l’immagine, il vero, il falso, il doppio, la manipolazione, la moltiplicabilità ecc. sono diventati ossessioni primarie: il nostro, appunto. E allora viene fuori un altro modo di attualizzare Dalí: ecco il prestigiatore che stavolta intitola il suo show «L’immagine che scompare», perché questo compulsivo creatore di figure e oggetti dipinti era in grado di mettere in crisi, oltre quelle meramente psichiche, anche le nostre facoltà percettive e mnemoniche. «Sculture con spazi per nascondersi, illusioni visive otticamente dinamiche o doppie immagini, atti di sparizione compiuti dall’artista all’apice della sua fama» è quanto offre il «mostro in mostra».
Ci sono figure nelle opere di Dalí che sembrano scomparire: è il caso del cagnolino nell’angolo in basso a destra di «Invenzioni dei mostri» (1937), un’opera à la Bosch interpretata come una premonizione sullo scoppio della seconda guerra mondiale, utile, come «Morbida costruzione con fagioli bolliti: premonizione di guerra civile» (1936, Philadelphia Museum of Art), a rivendicare nel franchista Dalí, ma anche nell’amico di García Lorca, che dai franchisti fu trucidato, un insospettabile sentimento pacifista. Quanto al cagnolino, curatori e restauratori si sono chiesti se la sua immagine in dissolvenza sia intenzionale o se sia il risultato di un deterioramento del dipinto. Per concludere, dopo indagini agli infrarossi, che «è molto vicino all’aspetto che avrebbe avuto nel 1937».
La critica si mantiene cauta, ma sembra cosciente del fatto che disprezzare Dalí equivale a disprezzare i milioni di persone che lo amano. «Per gli standard formali della pittura istituzionale mainstream di oggi (...), Dalí sembra un vero e proprio genio del mezzo, continua Pocard. Le questioni per cui un tempo era stato criticato, le superfici piatte e prive di pennellate, i facili effetti fotografici (…) sembrano piuttosto attraenti se paragonate a qualsiasi cosa di, ad esempio, Jeff Koons o Richard Prince».
Che cosa farebbe oggi Dalí, avendo a disposizione l’arsenale digitale, gli algoritmi, gli Nft, l’intelligenza artificiale? Lui, che non disdegnava incursioni in ciò che la tecnologia dei suoi tempi offriva (l’ologramma, ad esempio), molto probabilmente avrebbe trovato il modo di utilizzare quelle attuali in maniera assai meno banale di molti suoi colleghi d’oggi. Un artista che sapeva bene che per rendere plausibili visioni improbabili e irreali occorreva praticare un iperrealismo visionario, al di là di ciò che consideriamo buon gusto e buona pittura, un pittore che, come ha scritto lo storico dell’arte Marco Di Capua nella sua monografia (Mondadori Electa) ha eseguito quadri che sono dimostrazioni «di forza, di lucidità compositiva, di intelligenza tutta messa al servizio del potere delle allucinazioni», avrebbe forse dimostrato che il virtuosismo kitsch era per lui un’arma di coinvolgimento di massa e che poteva essere sostituito da altre tecniche, persino dalla rinuncia alla manualità?
Resta lettura gustosissima il suo pamphlet I cornuti della vecchia arte moderna. Cornuti e mazziati i critici che osannavano l’arte astratta e l’allora trionfante Action Painting (il testo risale al 1956) e non capivano che l’antiaccademismo sarebbe diventato ben presto la più stucchevole delle accademie. Tra invettive e sarcasmo (come la lettera a Picasso, ringraziato perché i suoi «ultimi e ignominiosi quadri hanno assassinato l’arte moderna», ponendo fine all’abominio e costringendoci finalmente a «tornare a Raffaello») si celano o affiorano questioni più importanti: l’interesse per la scienza nucleare; la certezza che la tecnica, nell’arte, non possa sostituire la filosofia o la psicologia (altrimenti Mondrian sarebbe paragonabile a Vermeer soltanto per certe analogie cromatiche, mentre «Vermeer è pressoché tutto e Mondrian è pressoché nulla»).
Infine, la criticità implicita in un’espressione come «modernità», questione ancora oggi aperta. Se la tecnica non è sinonimo di arte, forse citare e venerare Velázquez e Vermeer negli scritti e dipingere con effetti alla Frank Frazetta, celebrato protagonista dell’iperrealismo illustrativo fantasy, potrebbe essere stata una strategia, esattamente come la «cattiva pittura» nella quale de Chirico aveva scovato il modo per liberare l’immagine dalla dittatura della fotografia. E forse la pittura «piatta» di Dalí, uno stile meccanicamente eseguito che renderebbe equivalente la fruizione delle sue opere dal vero o in riproduzione, non era che un ulteriore, ben calcolato stratagemma concettuale.
Il già citato Glenn Brown, cinquantasettenne artista della scuderia Gagosian, da sempre lavora su questioni analoghe. Più volte ha citato, direttamente o indirettamente, opere di Dalí. Il fatto che quest’ultimo sia un riferimento per un artista la cui opera si concentra sulle nozioni di stile, appropriazione e riproduzione, è un dato indicativo. Brown è noto per produrre dipinti il cui spessore materico è del tutto illusorio, il che, da un certo punto di vista, rende i suoi dipinti simili alle loro riproduzioni fotografiche. In «The Tragic Conversion of Salvador Dalí (after John Martin)», un monumentale dipinto del 1998, ai tempi in cui Brown era nell’orbita di Charles Saatchi, dichiara esplicitamente qual è il suo obiettivo, vale a dire creare associazioni circolari tra epoche diverse attraverso la persistenza degli stili.
Nella fattispecie, il sublime romantico delle scene apocalittiche di John Martin, artista e incisore attivo alla metà del XIX secolo, che raggiunse un’estesa popolarità grazie alle sue illustrazioni per la Bibbia, e l’estetica dell’illustrazione e della cartellonistica per film e narrativa di fantascienza. Citando John Martin, un ulteriore collegamento è quello creato tra scienza (geologia), fantascienza e religione. Sono quei cortocircuiti sui quali Jorge Luis Borges ha costruito molti celebri racconti.
Tornano in mente, in questo caso, i suoi immaginari metafisici del perduto mondo di Tlön che «non cercano la verità, e neppure la verosimiglianza, ma la sorpresa. Giudicano la metafisica un ramo della letteratura fantastica». In altri casi, Borges ha parlato della teologia e della filosofia come letteratura fantastica. In questo mondo di Rovine circolari, per citare un altro suo racconto, si muoveva Dalí e ora Brown, definito «pittore di dipinti». Non fu certo un caso se l’edizione degli «Oscar» Mondadori della raccolta Finzioni recasse in copertina gli «orologi molli» dell’opera daliniana più celebre, ovviamente dedicata al tempo, «La persistenza della memoria» (1931).
Dalí è stato vittima del suo stesso personaggio. L’abbraccio (quasi) mortale dei mass media ne ha tramandato le stravaganze, i baffi impomatati (ritrovati intatti, si dice, nel momento in cuivenne riesumato il suo cadavere per prelevarne del Dna quando una donna dichiarò di essere sua figlia), la corte dei miracoli con il discusso segretario «Captain» Moore, che venne arrestato per le sin troppo generose tirature cui sottoponeva le opere grafiche del suo datore di lavoro, e Amanda Lear. E poi le dicerie sulle cause dell’incendio che devastò il castello di Púbol e che non risparmiò lo stesso artista, salvati dal factotum Robert Descharnes, le voci sui tradimenti della moglie Gala, che avrebbe tenuto prigioniero il marito costringendolo a dipingere, le querelle sui diritti di sfruttamento dell’immagine ecc.
Come sempre tutto ciò che ruota intorno alla vita di Dalí è un cocktail più o meno tossico di verità e leggende (spesso nere), di falsi amici e di autentici devoti, come il pittore Antoni Pitxot, scomparso nel 2015, che fu vicepresidente della Fondazione intitolata all’artista e a sua moglie (dal 2017 il presidente è Jordi Mercader, industriale a capo del gruppo cartario Miquel y Costas & Miquel). Dalí è stato anche questo, ma il fenomeno mediatico non deve far passare in secondo piano l’importanza dell’opera e degli scritti. A proposito di questi ultimi, è ancora Di Capua a precisare che «sono stati i quadri a generare i saggi (…). Capovolgendo pessime abitudini novecentesche, Dalí non è mai stato sorretto da teorie preordinate, ma incitato da continue chiarificazioni, disvelamenti della sua stessa opera avvenuti soltanto “dopo”».
Fu «dopo» la visione e lo shock provocato in lui da «L’Angelus» di Millet, dopo il suo approccio «paranoico critico», ma prima delle indagini scientifiche, che l’artista capovolse completamente l’interpretazione idilliaca di un dipinto popolarissimo. Un’opera più volte rivenduta e riprodotta su servizi da caffè e scatole di cioccolatini, finita sotto gli occhi di tutti, familiare, amata, stampata in riproduzioni devotamente appese nelle case, nascondeva in realtà significati inquietanti, funebri, erotici, edipici. I raggi x, dopo l’intuizione daliniana, rivelarono ai piedi della coppia di contadini un oggetto rettangolare, forse una piccola bara.
Ne scaturì il più bel libro di Dalí, Il mito tragico dell’Angelus di Millet, pubblicato nel 1963 ma, a detta dell’autore, scritto ventidue anni prima (la traduzione italiana è stata pubblicata da Abscondita nel 2000). Un altro testo da leggere tra le righe, perché oltre l’avvincente indagine che ne costituisce la trama, è una riflessione sui destini dell’immagine, sulla visione, la visionarietà, la profondità percettiva (ancorché «paranoica») come antidoto alla convenzionalità, alla stereotipia, alla superficialità del nostro rapporto con le figure e le opere. Tutto ciò, oltre a rendere utile una mostra come quella allestita ora a Chicago, è di estrema attualità. Tra i molti modi utilizzabili per restituire a un artista il suo ruolo (e non fu, in questo caso, un ruolo marginale), questo ci pare il meno soggetto a mode ricorrenti, come quella della letteratura distopica, alla quale sono stati collegati i numerosi paesaggi desertificati delle tele daliniane.
Qualcuno, prima o poi, parlerà anche di metaverso come possibile chiave di lettura del bestiario e del repertorio iconografico dell’artista catalano.
La paura della critica radical di esporsi troppo con Dalí permane ma senza la virulenza di un tempo. Una decina d’anni fa il critico Jed Perl, scrivendo dei dipinti di Dalí che si trattava di «discariche cosmiche piene di idee sulla struttura atomica e sulla topologia derivate dalla fisica e dalla matematica pop; di uomini nudi o quasi nudi in vari stati di perfezione o dissoluzione; e di rappresentazioni cultuali della moglie dell'artista, Gala, che impersona la Madonna o Galatea o sant’Elena» e che «sono l’equivalente visivo del cibo spazzatura», dichiarava comunque per il loro autore il proprio «rancoroso rispetto».
Al di là delle alterne fortune del Surrealismo, Dalí figura stabilmente nella lista dei dieci artisti più popolari al mondo. Come dopo l’influenza spagnola e alla vigilia di un (possibile) devastante conflitto mondiale, il Surrealismo ci offre la necessaria fuga della realtà in forma di sogni (materni, come quelli elargiti alla scorsa Biennale di Venezia) o scatena incubi, meglio se apotropaici che premonitori. Nel repertorio di Dalí ci sono gli uni e gli altri. Il grande critico d’arte del «New York Times», John Russell, scrisse nel 1989: «Era possibile sostenere, come sosteneva George Orwell nel 1942, che i dipinti di Dalí “sono malati e disgustosi“. Ma si può anche sostenere che al suo meglio Dalí ha scritto, in una maniera tuttora valida, una dichiarazione di indipendenza per l’immaginazione umana».
Artista, bibliotecario, insegnante privato di francese, organizzatore e geniale allestitore di mostre: il suo celebre orinatoio capovolto è stato considerato l’opera più influente del XX secolo. Usava lo sberleffo contro la seriosità delle avanguardie storiche, e intanto continuava a scandagliare temi come il corpo, l’erotismo e il ruolo dello spettatore
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